Quando Guiboud Ribaud visitò le prigioni sovietiche.
Di Luca Baldelli
La
denigrazione e la demonizzazione di Gulag e prigioni sovietiche ha
toccato vette inarrivabili, che solo una paziente opera di
controinformazione riesce in parte a contrastare, in presenza di
un’assoluta asimmetria di mezzi e possibilità per farsi sentire ed
ottenere tribune adeguate onde consentire all’opinione pubblica di farsi
la sua idea, libera e senza pregiudizi, nella verità e non in odio ed
in contrasto ad essa. Per decenni si è parlato di milioni, decine di
milioni di Sovietici finiti nelle fauci mai sazie di Gulag danteschi e
prigioni lovercraftiane. Un esercito di senza nome, di schiavi, di iloti
spacciati per veri dalla storiografia capitalista e borghese. Son
bastati pochi storici, per giunta spesso anche anticomunisti, per vedere
che nei documenti degli archivi sovietici, peraltro apertamente
manipolati con l’avvento del gorbaciovismo e, soprattutto, col crollo
dell’URSS, era nascosta una verità ben diversa: meno detenuti che nei
mitici States e nessun regime concentrazionario da Babilonia dei tempi
biblici o da hitlerismo conclamato. L’impossibile equazione tra
“stalinismo” e nazionalsocialismo, ancora una volta appariva per quello
che era e stavolta col conforto di numeri inoppugnabili: una vile
impostura! Zemskov ed altri storici, tutti anticomunisti, liberal –
democratici o indipendenti, si incaricavano di dimostrare il contrario
di quel che invece sostenevano (e sostengono) trockisti e finti
comunisti revisionisti.
Sarebbe bastato leggere fonti coeve, e tutte OCCIDENTALI, del resto, per rendersi conto che la storia era ben altra.
Una di queste
fonti riguardava un noto avvocato francese, Guiboud Ribaud. Costui, nel
1927, espresse il desiderio di far visita alle prigioni dell’URSS, per
rendersi conto di persona della situazione. Qualsiasi governo o regime
che avesse avuto interesse a nascondere qualcosa, gli avrebbe o chiuso
le porte o aperte solo quelle preventivamente mondate da catenacci lordi
di sangue e sudore. Nulla di tutto ciò avvenne per il principe del foro
francese: egli poté avere subito, telefonicamente, un elenco di
centinaia di prigioni dal Commissariato DEL popolo per la giustizia
della Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa e poté scegliere
tutte quelle che più gli interessavano. Varcate le soglie delle prigioni
prescelte, trovò un mondo per lui sorprendente: non galeotti con palle a
calcagna logore e stremate, ma persone di più nazionalità che
camminavano per i corridoi, sorseggiavano del tè, conversavano
serenamente. Nessun idillio, ma nemmeno l’inferno da tanti millantato.
Ne uscì un’opera: “Ou va la Russie?” ( Parigi 1927), con un bel capitolo, il SETTIMO, dedicato ai penitenziari.
L’opera era recensita e prefata dal grande Henri Barbusse (1873-1935), sincero amico dell’URSS e grande intellettuale francese, conterraneo di Guiboud-Ribaud.
Henri Barbusse |
L’aspetto più interessante, o comunque uno dei più significativi del
libro, è senza dubbio la narrazione della sorpresa derivante dal vedere
individui che, condannati alla pena capitale per delitti e reati
politici, si erano visti le pene drasticamente ridotte per merito della
dialettica processuale, aspetto questo sempre negato dai detrattori
dell’URSS, per i quali nemmeno gli avvocati sarebbero esistiti nella
grande Unione dei Soviet. Mentre i Tribunali fascisti esiliavano e
condannavano a morte, in Urss si redimeva e si lavorava per la
correzione ed il recupero sociale del reo. L’avvocato francese, venuto
in Urss con sincera voglia di capire, ma anche con in testa tanti motivi
ricorrenti della propaganda antisovietica, se ne tornò al suo Paese
completamente convinto della verità che aveva visto e che era, per sé
stessa, indiscutibile. Egli si attirò l’odio e l’ostilità di tanti
bugiardi e mediocri, ma la stima di tutti gli uomini sinceramente
obiettivi, democratici, senza paraocchi. Dopo di lui, sarà la volta di Lenka Von Koerber e
di tanti altri scrittori, studiosi, sociologi, i quali visiteranno le
carceri sovietiche, trovando dinanzi ai loro occhi prigionieri più
liberi dei cittadini liberi dei Paesi capitalisti, i quali lavoravano
percependo il salario degli operai liberi e godendo di condizioni
premiali assolutamente invidiabili. M. S. Callcott, negli USA, riuscirà a
mandare alle stampe nel 1935 “Russian Justice“, nel quale
parlerà di questo e di altri aspetti, mettendo in rilievo, senza
apologie e senza incensi, la superiore (oggettivamente) realtà della
civiltà sovietica.
Lenka von Koerber |
Una civiltà
dove l’ingegner Ramzin, condannato nel processo del PARTITO INDUSTRIALE,
non fu tenuto sempre in prigione, ma portato nell’aula dove dava
lezioni, da solo o sotto scorta.
In quegli
stessi anni, gioverà ricordarlo, i detenuti dei Paesi capitalisti e
fascisti, segnatamente i politici, languivano tra la fame e la tisi
nelle galere di sterminio alle quali i fantocci politici del grande
capitale li inviavano.
FONTI
Sidney e Beatrice Webb, Il comunismo sovietico: una nuova civiltà, Torino, Einaudi, 1950
P. Guiboud Rubaud, Ou va la Russie, Paris, Editions sociales internationales, 1928
Lenka von Koerber, Soviet Russia fights crime, London, E.P. Dutton and Co, 1935
Mary Stevenson Callcott, Russian Justice, New York, Macmillan, 1935
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