giovedì 10 gennaio 2019

Trotskij nell’Italia fascista del 1932 e l’assoluta inconsistenza del PCL


Di Daniele Burgio, Massimo Leoni e Roberto Sidoli




In un nuovo articolo, intitolato “Dalla tragedia alla farsa”, emerge per l’ennesima volta l’inconsistenza e il carattere involontariamente autodistruttivo della direzione del PCL, di un nucleo dirigente allo stesso tempo presuntuoso, inetto e sottoposto a continue scissioni: un caso da manuale di teoria e praxis della “scissione permanente”.
Infatti avevamo innanzitutto invitato per ben due volte il micro partitino in oggetto, a partire dal nostro articolo intitolato volutamente “Quattro sfide alla candida ignoranza del PCL sul caso Olberg”, a dare risposta alle questioni concrete da noi sollevate proprio rispetto al caso di Valentin Olberg.
Pur sapendo che non ci sarà risposta neanche stavolta, ripetiamo per la terza e ultima volta almeno tre delle domande da noi sottoposte al PCL già alla fine di novembre del 2018 e, non certo a caso, lasciate senza alcun contraddittorio e replica da parte di Ferrando, nel suo articolo del 3 dicembre. 
“Prima sfida per il PCL: come può spiegare che Olberg non si dichiarò in nessun modo stalinista, e più precisamente una talpa e un agente provocatore stalinista, quando egli venne arrestato agli inizi di gennaio del 1936, proprio dalla polizia stalinista, ossia dal suo (presunto) “datore di lavoro”?
Seconda sfida. Proprio seguendo l’ipotesi avanzata dal PCL non si può spiegare in alcun modo perché Valentin Olberg, il presunto infiltrato stalinista, non abbia affermato e dichiarato subito, nel gennaio 1936, sia verbalmente che per iscritto, che egli volontariamente si era finto trotzkista dal 1929 al gennaio 1936, su incarico della polizia stalinista e dei suoi capi di Mosca; che egli si era volontariamente presentato e fatto passare per trotzkista durante sette lunghi anni, dal 1929 fino all’inizio del 1936, su incarico e dietro ordini proprio della polizia stalinista e dei suoi capi di Mosca.
Terza sfida per il PCL: come può spiegare la distanza temporale di più di un anno tra il momento in cui Valentin Olberg, il presunto agente stalinista, ricevette il falso passaporto honduregno nel 1935 dai nazisti e quello nel quale egli confessò tale elemento decisivo alla polizia stalinista nel maggio del 1936?
Infatti un ulteriore elemento di prova rispetto alla reale militanza trotzkista di Valentin Olberg è costituita dalla distanza temporale di più di un anno creatasi tra il momento in cui Valentin Olberg ottenne materialmente a Praga il falso passaporto honduregno, con l’aiuto di Tukalevskij e della Gestapo agli inizi del 1935, e quello in cui invece egli rivelò tale dato di fatto all’NKVD e alla polizia sovietica, ossia nel giugno del 1936.
Lo storico antistalinista Rogovin aveva riportato nel suo libro che “le indagini sul caso Olberg, che si erano concluse a maggio” del 1936 “vennero riaperte” nel giugno del 1936: Rogovin ammise che “ora” (nel giugno del 1936) “Olberg aveva testimoniato di avere legami con la Gestapo”, a partire dal famoso passaporto falso honduregno procuratogli a Praga anche grazie a Tukalevskij e ai nazisti.
Seppur involontariamente, lo storico antistalinista Rogovin ha contribuito a devastare ancora più profondamente la teoria secondo cui Valentin Olberg costituiva un infiltrato stalinista: la falla emerge quasi subito, sempre accettando come veritiera tale ipotesi.
Agli inizi del 1935, Valentin Olberg infatti ottenne ed ebbe materialmente in mano il falso passaporto honduregno, anche grazie a Tukalevskij e alla Gestapo: fatto sicuro e innegabile.
Ma solo nel maggio del 1936, e cioè solo dopo più di un anno, Valentin Olberg confessò tale fatto eclatante e tale clamoroso aiuto logistico di matrice nazista agli investigatori della polizia sovietica: altro elemento sicuro e riportato persino dall’antistalinista Rogovin, anche se quest’ultimo spostò ancora avanti nel tempo, ossia al giugno del 1936, le prime ammissioni di Olberg sui suoi concreti rapporti logistici con Tukalevskij e i nazisti. 
Sussiste, in altre parole, una sicura e innegabile distanza temporale di circa cinquecento giorni tra il momento in cui Valentin Olberg ricevette e venne materialmente in possesso a Praga del falso passaporto honduregno, grazie a Tukalevskij e alla Gestapo, prima di entrare illegalmente e sotto falso nome in Unione Sovietica nel luglio del 1935, e il periodo (maggio del 1936, dieci mesi dopo) in cui invece Valentin Olberg finalmente ammise e confessò di fronte all’NKVD che il suo falso passaporto gli era stato procurato da Tukalevskij e dall’apparato statale nazista.
È solo un dato di fatto arido e privo di importanza, quello avente per oggetto i circa cinquecento giorni che distanziarono l’acquisizione materiale del passaporto falso da parte di Olberg, all’inizio del 1935 e grazie all’aiuto di Tukalevskij e della Gestapo, dalla confessione effettuata da Valentin Olberg all’NKVD stalinista rispetto a tale eclatante notizia e avvenuta solo nel maggio del 1936, più di un anno dopo?
Per niente: si tratta invece di un’informazione sicura che demolisce ulteriormente la tesi di “Olberg-provocatore stalinista”, mentre simultaneamente conferma e comprova nuovamente l’ipotesi opposta, di una notizia sicura rispetto a una condotta di Olberg imperniata sul seguire scrupolosamente la “regola del silenzio” rispetto al nemico, nel caso specifico il regime stalinista.
I cinquecento giorni che separano l’acquisizione materiale da parte di Olberg del falso passaporto honduregno, grazie all’aiuto di Tukalevskij e della Gestapo, dalla data dell’ammissione di tale notizia all’NKVD costituiscono infatti l’elemento concreto che fa sparire anche i dubbi quasi irragionevoli sul fatto che Valentin Olberg fosse un coraggioso militante trotzkista, e non certo un infiltrato stalinista nelle fila trotzkiste”.
Creando, ovviamente, un’inevitabile domanda: perché la Gestapo e i nazisti fornirono un passaporto falso a un intellettuale ebreo, comunista e antistalinista, intenzionato e deciso a entrare in modo illegale nell’Unione Sovietica stalinista del 1935?”.
Anche nel nuovo articolo “Dalla tragedia alla farsa” la direzione del PCL riesce in modo farsesco e più che imbarazzante a non rispondere in alcun modo alle nostre sfide sul caso Olberg.
Nulla, zero e niente anche nella loro ultima pseudo risposta, e la ragione di tale silenzio risulta fin troppo semplice: chi con nulla ferisce, nel nulla perisce.
In secondo luogo avevamo dimostrato già in precedenza e con tutta una serie di argomenti, ivi compreso il significativo e lungo silenzio tenuto in merito dall’intelligente e preparato storico trotzkista Brouè, la concretissima realtà della ricevuta della lettera spedita da Trotskij a Karl Radek all’inizio del 1932: si può ritrovare tale materiale nel nostro articolo intitolato “McGregor, Pompei 1932 e le menzogne di Trotskij”.
Cosa ha opposto di concreto il PCL, nell’articolo dell’8 gennaio 2019, ai “fatti testardi” (Lenin) che abbiamo presentato rispetto alla cocciuta ricevuta della lettera del 1932, conservata non a caso negli insospettabili archivi Trotskij di Harvard?
Ancora una volta, nulla. Zero. Niente.
In terza battuta avevamo sfidato Ferrando e il PCL almeno a entrare nel merito di “Linköping”: parola e città svedese riportata dallo stesso Trotskij durante la tredicesima sessione della commissione Dewey, che demolisce senza scampo la tradizionale tesi antistalinista sulla presunta e immaginaria impossibilità materiale del volo di Pjatakov, nel dicembre 1935.
Anche su questa tematica nell’articolo in oggetto emerge un patetico zero, un niente farsesco e un nulla paradossalmente estremamente rivelatore.
E per le coincidenze da noi evidenziate rispetto agli eventi del 1935, a partire dal fatto sicuro e innegabile che un aereo civile proveniente dall’estero era atterrato in quel mese nell’aeroporto norvegese di Kjeller, a soli cinquanta chilometri in linea d’aria da Honefoss e da dove risiedeva allora Trotskij?

Nulla, zero, niente anche in questo caso specifico.

Avevamo altresì chiarito che Ferrando, nel suo articolo dell’inizio di dicembre dello scorso anno, non aveva detto alcunché neanche sul terzo capitolo del nostro libro: seguito fedelmente, nella sua strada nichilista, anche dal disastroso articolo intitolato “Dalla tragedia alla farsa”. 
E il quinto capitolo del libro “Il volo di Pjatakov”? Anche in questo caso nulla emerge dall’articolo in oggetto, che da una farsa si trasforma ormai in una burla mal riuscita.
Zero, nulla e neanche una risposta anche nei confronti dell’apparentemente assurda “gita nel ghiaccio” compiuta da Trotskij dal 20 al 22 dicembre del 1935, in una gelida foresta norvegese e nonostante che egli si dichiarasse allora “malato”, stanco e febbricitante.
Nell’allucinato pezzo in via di esame non si può trovare ovviamente nulla neanche sulla miserevole figuraccia rimediata da Trotskij durante la sesta sessione della commissione Dewey, sempre in relazione alla sopracitata “gita nel ghiaccio” del 20/22 dicembre 1935.
Infine avevamo sottolineato già nell’articolo intitolato “McGregor, Pompei 1932 e le menzogne di Trotskij” tutta una serie di indizi e prove indirette a favore dell’esistenza concreta dell’incontro segreto di Pjatakov con Trotskij, nella Norvegia del dicembre 1935.
Non si trattava certo di elementi di poco conto.
Ad esempio lo storico trotzkista Brouè aveva infatti ammesso che Lev Sedov, su incarico di Trotskij, mentì clamorosamente nel 1936 rispetto all’esistenza del concretissimo e indiscutibile Blocco delle opposizioni antistaliniste del 1932.
Inoltre erano venuti alla luce del sole i due viaggi compiuti apertamente da Trotskij, nel novembre e nel dicembre 1932, nell’Italia fascista di quel tempo; due viaggi senza avere guai e scocciature di alcun genere da parte della polizia del prototipo di quei regimi fascisti definiti correttamente dall’Internazionale Comunista di matrice stalinista, nel dicembre del 1933, come “la dittatura terrorista aperta degli elementi più reazionari, più imperialisti, più sciovinisti del capitale finanziario”.
Bene, a questo punto ripubblichiamo e ripetiamo per la seconda volta tale sezione del nostro intervento precedente, a cui ovviamente nulla ha potuto obiettare la patetica direzione del PCL all’inizio di gennaio.
“Primi due flash. 
Durante la sesta sessione della commissione Dewey “di fronte alla domanda di Dewey avente per oggetto se egli tenesse “un diario”, Trotskij rispose: non un diario. Le mie lettere sono annotate, lettere spedite e lettere che arrivano. In questo modo, io posso più o meno fissare il mio reale diario”.
Un’evidente bugia, visto che esiste un diario scritto sicuramente da Trotskij nel corso del 1935.
Tra l’altro Trotskij non scrisse unicamente il concretissimo diario del 1935, ma il leader in esilio della Quarta Internazionale ricordò con notevole precisione, in una nota del 9 febbraio contenuta proprio nel suo diario del 1935, che “ne tenni uno” (di diario) “per qualche settimana allo scoppio della guerra”, e cioè nell’agosto del 1914, e anche “un altro in Spagna, dopo la deportazione dalla Francia, nel 1916. Credo che sia tutto”. 
Quindi scopriamo l’esistenza di ben tre diari scritti da Trotskij, nel 1914, nel 1916 e nel 1935: niente male, per una persona che invece dichiarò nell’aprile del 1937 di non tenere “un diario”, a solo due anni di distanza dal momento in cui egli iniziò a scrivere il diario del 1935. 
Sempre sotto l’aspetto dell’abilità di Trotskij nel produrre disinformazione va notato altresì che sempre nel suo diario “dimenticato” del 1935, e più precisamente il 9 aprile del 1935, il leader della Quarta Internazionale annotò che, “nei giorni scorsi, ho letto sulla “Veritè” (l’organo principale di informazione dei trotzkisti francesi, dal 1929 al 1936) “un saggio intitolato: Où va la France? Si tratta di un giornale che, come dicono i francesi, “se rèclame de Trotskij”. Nella sua analisi c’è molto di vero, ma anche molto di taciuto. Non so chi scriva questa serie di articoli” (ripetiamo volutamente: “non so chi scriva questa serie di articoli”) “comunque, uno che conosce a fondo il marxismo”. 
Pertanto Trotskij sottolineò il 9 aprile del 1935, e sempre sul suo diario, che egli non sapeva chi scrivesse “questa serie di articoli”, contenuti sotto il titolo di “Où va la France” e appena usciti su un periodico trotzkista: il problema deriva dal fatto che l’autore di quella “serie di articoli” risulta senza ombra di dubbio proprio lo stesso Trotskij, ossia l’autore delle note contenute nel suo diario del 1935, in data 9 aprile 1935.
In quella data, pertanto, Trotskij dichiarò di non conoscere l’identità dell’autore di un saggio scritto ed elaborato da lui stesso, ossia “uno che conosce a fondo il marxismo”: il leader della costituenda Quarta Internazionale non era diventato schizofrenico di colpo, giudici-lettori.
Essendo ormai in cattivi rapporti con le autorità francesi a partire dalla seconda metà del 1934, dopo la buona accoglienza invece ricevuta al suo arrivo come esule in Francia nel luglio del 1933, Trotskij temeva in quella fase storica un’eventuale perquisizione della polizia locale, che avrebbe potuto colpire e interessare anche il suo diario: non desiderando in alcun modo rivelarsi come l’autore degli articoli dal titolo “Où va la France”, egli dichiarò quindi di non conoscere la paternità di questi ultimi. 
Un trucco e una forma sottile di disinformazione usata, per motivi comprensibili, dal leader in esilio della Quarta Internazionale? Certo, ma si tratta di un’ulteriore prova della capacità di Trotskij di produrre clamorose menzogne, in questo caso non prive d’arguzia e umorismo, quando tale particolare praxis gli faceva comodo e serviva i suoi bisogni concreti”. 
Passiamo ora a un terzo elemento illuminante, ossia la grande elasticità tattica dimostrata dal leader in esilio della costituenda Quarta Internazionale.
Un notevole grado di spregiudicatezza tattica nei confronti degli apparati statali borghesi era stato usato in ogni caso da Trotskij “già nel dicembre del 1932, rispetto all’orrendo regime fascista italiano allora al potere da dieci anni. 
Tornando nel suo esilio in Turchia, dopo una conferenza da lui tenuta a Copenaghen il 27 novembre del 1932, Trotskij transitò infatti per la Francia al fine di imbarcarsi verso i lidi ottomani, ma egli ebbe allora uno scontro con le autorità di Parigi per banali questioni logistiche; al fine di risolvere la situazione Trotskij cercò e ottenne aiuto, invece che dalla vicina Spagna democratico-borghese del 1932, proprio dalla dittatura anticomunista di Mussolini che, secondo le testuali parole dello storico trotzkista Brouè, gli concesse un “visto italiano di transito”. Quest’ultimo ha notato in proposito che Trotskij, “ripartito il mattino del 2 dicembre,” (1932, da Copenaghen) “attraversa la Francia con Lev Sedov, che l’accompagna fino a Marsiglia: qui hanno luogo incidenti con la polizia francese che lo vuole imbarcare a forza su una vecchia tartana, la Campidoglio” (della serie: la comodità prima di tutto). “Ne nasce uno scandalo da cui esce grazie a un visto italiano di transito”, passando brevemente per Milano prima di imbarcarsi per la Turchia. 
Molto prima dei suoi spregiudicatissimi colloqui in Messico, nel giugno e luglio del 1940, con il funzionario statunitense Robert McGregor, Trotskij non ebbe in sostanza alcun problema politico e morale nel dicembre del 1932 a ricercare e ad acquisire un “visto italiano di transito” dalle autorità fasciste italiane, ossia da quella dittatura reazionaria di Mussolini che da dieci anni perseguitava ferocemente e senza interruzione i comunisti e le forze democratiche. 
La sicura informazione sul viaggio italiano – legale e autorizzato dalle autorità fasciste – del leader in esilio della Quarta Internazionale va inoltre collegata e messa a confronto con la tesi, più volte esposta da Trotskij, secondo il quale egli non prese mai e in alcun caso “accordi”, e non avviò mai anche solo delle “trattative dietro le quinte” con i “nemici della classe operaia”. Ad esempio anche nel suo testamento del febbraio-marzo del 1940, redatto poco prima della morte del leader della Quarta Internazionale, Trotskij scrisse: “Non ho bisogno di confutare ancora una volta le stupide e vili calunnie di Stalin e dei suoi agenti: non v’è una macchia sul mio onore rivoluzionario. Né direttamente, né indirettamente non sono mai sceso ad accordi o anche solo a trattative dietro le quinte, coi nemici della classe operaia.
Avendo conosciuto ormai sia il viaggio (legale, autorizzato) di Trotskij, nell’Italia fascista del 1932 sia le affermazioni contenute nel suo testamento del febbraio-marzo 1940, sono possibili a questo punto solo tre ipotesi.
Prima ipotesi: a giudizio del Trotskij che scriveva nel 1940, Mussolini e il regime fascista italiano del 1932 non risultavano dei “nemici della classe operaia”. Escludiamo subito tale tesi.
Seconda ipotesi: Trotskij, nel 1940, si era dimenticato completamente del suo viaggio legale nell’Italia fascista del dicembre 1932. Vista l’ottima memoria di Trotskij, sommata al carattere molto particolare sia dell’incidente di Marsiglia sia della sua successiva permanenza in Italia, dove egli tra l’altro si trovò allora attorniato e seguito da alcuni giornalisti fascisti che cercavano inevitabilmente di ottenere le sue dichiarazioni, escludiamo subito anche tale ipotesi.
A questo punto non rimane che una sola alternativa: Trotskij mentì clamorosamente, anche nel suo testamento del 1940, sul fatto di non essere “mai sceso ad accordi”, “né direttamente né indirettamente”, “o anche solo a trattative dietro le quinte” con i “nemici della classe operaia”. Riteniamo che tale conclusione sia inattaccabile, visto che per entrare pubblicamente e legalmente nell’Italia fascista del dicembre del 1932 Trotskij doveva inevitabilmente “trattare” e “accordarsi”, “direttamente o indirettamente”, con la polizia fascista e le autorità fasciste italiane: per l’appunto egli doveva quindi “accordarsi” con inequivocabili e sicuri “nemici della classe operaia” come quel funzionario statunitense legato all’FBI, ossia Robert McGregor, a cui Trotskij fornì in Messico tutta una serie di succulente informazioni nell’estate del 1940, durante un colloquio tra i due su cui torneremo in seguito”. 
Un altro segmento “di prove indirette riguarda invece le innegabili ed evidenti bugie espresse nel 1936-37 dal leader della Quarta Internazionale e da suo figlio rispetto alle loro reali relazioni con molti imputati nei processi di Mosca, oltre ai casi sopra esaminati di Pjatakov e Radek. 
Partiamo dalla clamorosa menzogna espressa da Lev Sedov, con l’autorizzazione e l’impulso diretto da parte del padre, rispetto alla reale posizione politica di I.N. Smirnov.
Lo storico trotzkista P. Brouè ci ha infatti informati che dopo il primo processo di Mosca dell’agosto del 1936 “Sedov, spinto dal padre che gli chiede di fare quel che ormai non può più fare di persona, comincia la preparazione di un opuscolo, che lo porta a definire meglio la linea di difesa e a condurre un esame critico molto accurato del verbale del processo. Per evidenti ragioni di sicurezza e per timore di nuocere alla difesa degli uomini nelle mani della GPU” (ossia della polizia stalinista) “che non hanno ancora negato, Sedov decide di negare tutto ciò che ha a che fare con il blocco delle opposizioni del 1932. Per le esigenze della difesa Smirnov, che Sedov ammette di aver incontrato, banalizzando però la conversazione, è trattato come un qualsiasi capitolazionista” (della corrente trotzkista) “del 1929, distinto da Zinoviev solo per sfumature; allo stesso modo, tutti gli imputati di Mosca vengono presentati come avversari politici di Trotskij quali effettivamente sono stati in una certa epoca, ma non erano più veramente nel 1932”. 
Focalizziamo innanzitutto l’attenzione sulla figura di I.N. Smirnov: lo stesso storico trotzkista Brouè ammise apertamente che, per le “esigenze della difesa” e “spinto dal padre”, Lev Sedov mentì rispetto alla reale posizione e ruolo politico di I.N. Smirnov, e che cercò invece di farlo passare per un qualsiasi “capitolazionista” rispetto a Stalin, mentre sempre Brouè nel 1991 aveva invece stabilito che I.N. Smirnov fosse, senza dubbio e a tutti gli effetti, già nel corso del 1931 un dirigente politico antistalinista assai vicino alla Quarta Internazionale, come si è già citato in precedenza.
Siamo quindi in presenza di una plateale menzogna elaborata di comune accordo dal duo Sedov/Trotskij, certo sostenuta per le legittime “esigenze della difesa” della costituenda Quarta Internazionale (Brouè); ma se Sedov e Trotskij mentirono rispetto al reale ruolo politico svolto da Smirnov per le “esigenze della loro difesa”, per quale motivo non avrebbero potuto (e dovuto) pronunciare menzogne anche rispetto alla reale posizione politica di Pjatakov e Radek nel 1931-36, sempre “per le esigenze della difesa”? Si tratta in tutti i casi dell’esistenza (o non esistenza) di rapporti politici di matrice antistalinista, in entrambi negati con forza da Sedov/Trotskij.
La sequenza di bugie continuò con la clamorosa menzogna espressa da Lev Sedov, sempre con l’autorizzazione da parte del padre, rispetto alla concreta e indiscutibile esistenza del “blocco delle opposizioni” nel 1932.
Nel passo sopracitato lo storico trotzkista Brouè ammise apertamente che, sempre per le “esigenze della difesa” di Trotskij, suo figlio (e in seguito lo stesso Trotskij, davanti alla commissione Dewey e in altre occasioni) mentirono negando la realtà sicura e indubbia del “blocco delle opposizioni nel 1932”, alleanza politica invece realmente formatasi nel corso di quell’anno.
Di nuovo: se Sedov/Trotskij dissero bugie e raccontarono storie anche negando la concreta esistenza di un fronte unito delle opposizioni antistaliniste nel 1932, sempre per le (legittime) “esigenze della difesa”, perché non dedurne che essi raccontarono frottole anche sulla reale posizione politica di Pjatakov/Radek nel 1931-36 e sul volo di Pjatakov, sempre per le legittime “esigenze della difesa” di Trotskij e della costituenda Quarta Internazionale?
Un discorso identico va effettuato anche per la clamorosa menzogna pronunciata da Lev Sedov, sempre con l’autorizzazione da parte del padre, (“spinto dal padre”) in relazione ai reali rapporti politici creatisi nel 1932 tra Trotskij e Zinoviev/Kamenev, principali imputati al processo di Mosca dell’agosto del 1936.
Nel passo sopracitato lo storico trotzkista P. Brouè ci informa che, sempre per le “esigenze della difesa”, Sedov presentò “tutti gli imputati di Mosca” (al processo di Mosca dell’agosto 1936) “come avversari politici di Trotskij, quali effettivamente sono stati in una certa epoca ma non erano più veramente nel 1932”: tutti gli imputati quindi, ivi compresi Zinoviev e Kamenev, come del resto fece suo padre qualche mese dopo davanti alla commissione Dewey. 
Di nuovo: se Sedov/Trotskij mentivano sulla reale posizione politica di Zinoviev/Kamenev nel 1932, che allora operavano in qualità di astuti oppositori clandestini di Stalin, oltre che rispetto alla loro reale relazione (di alleanza politica) con Trotskij sempre nel 1932, per quale motivo non dedurre che essi produssero menzogne anche sulla reale posizione politica di Pjatakov e Radek nel 1931-36, oltre che sul volo di Pjatakov?”.
Sempre per le “esigenze della difesa”, certo.
Ultimi due flash rilevanti, rispettivamente su Robert McGregor e sulla gita di Trotskij a Pompei nel novembre del 1932, con un regime fascista allora dominante in Italia.
A giudizio di Trotskij si poteva infatti “diventare un informatore temporaneo dell’apparato statale degli USA, se le circostanze concrete l’avessero richiesto.
Trotskij giunse infatti fino al punto di incontrarsi due volte in Messico nel 1940 con un rappresentante del consolato statunitense nel paese latino-americano, un certo Robert G. McGregor, per un flusso di informazioni a senso unico sulle attività degli stalinisti in Messico, teso e finalizzato ad aprire uno spiraglio alla richiesta di visto per gli USA, espressa da tempo da parte del leader dell’ormai costituita Quarta Internazionale. Nel rapporto dell’FBI del 1940 risulta che “nel giugno, Robert Mc Gregor del consolato si è incontrato con Trotskij nella sua casa… Egli” (McGregor) “si incontrò di nuovo con Trotskij il 13 luglio… Egli diede a Mc Gregor i nomi di pubblicazioni messicane, di leader politici e sindacali e di funzionari governativi che, secondo quanto si asseriva, erano legati con il CPM” (Partito Comunista Messicano). “Egli” (Trotskij) “affermò che uno degli agenti principali del Komintern, Carlos Contreras” (l’italiano Vittorio Vidali) “era al servizio del Comitato Direttivo del CPM. Egli discusse anche i presunti sforzi di Narciso Bassols, ex ambasciatore messicano in Francia, che Trotskij sosteneva fosse un agente sovietico, per ottenere che egli” (Trotskij) “fosse espulso dal Messico”. 
Il professor William Chase dell’università di Pittsburgh, che ha trovato il rapporto arrivato all’FBI nel 1940 proprio negli Us States archives-RG 84, notò giustamente che “col procurare al consolato USA informazioni sui loro comuni nemici, fossero essi messicani o comunisti americani o agenti sovietici, Trotskij sperava di provare il suo valore a un governo” (quello statunitense) “che non aveva desiderio di garantirgli un visto d’ingresso”: diventare momentaneamente un informatore e un confidente dell’FBI non costituiva pertanto un grosso ostacolo per lo spregiudicato e disinvolto Trotskij, sempre che tale azione fosse finalizzata a raggiungere un obiettivo politico da lui ritenuto importante. 
A giudizio di Trotskij, dunque, entrare in rapporti di collaborazione momentanea e tattica con nazioni e apparati statali capitalistici non costituiva certo un tabù e un grave problema politico, in certi casi: provi dunque Ferrando, se ci riesce, a dimostrare che i colloqui confidenziali del 1940 di Trotskij con un funzionario statale americano siano una “falsificazione stalinista”.
Si è inoltre già ricordato in precedenza come il leader in esilio della Quarta Internazionale fosse entrato in diretto e indiscutibile contatto “con le autorità fasciste italiane alla fine del 1932, nel suo viaggio di ritorno in Turchia dalla conferenza da lui tenuta a Copenaghen, e a questo punto si può aggiungere che Trotskij si fermò tranquillamente nell’Italia di Mussolini anche durante la tappa di andata del suo viaggio in Europa, visitando Pompei in compagnia della moglie e attorniato in tale escursione anche da quasi una decina di altre persone.
Avvocato del diavolo: “Servono prove indiscutibili, per questa vostra affermazione”.
Ce le fornisce lo stesso Trotskij che, in un’intervista del 23 novembre 1932 rilasciata al giornale danese Politiken, citò esplicitamente Pompei notando che proprio in quel luogo “noi” – ossia lui stesso e sua moglie – “abbiamo avuto una grande esperienza”.
Si tratta di un’altra falsificazione stalinista, Ferrando?
In ogni caso stiamo analizzando una “grande esperienza” di Trotskij che ovviamente si basava sul preventivo e indiscutibile assenso del governo fascista rispetto al suo passaggio sul suolo italiano, con i relativi contatti preliminari tra le due parti in causa necessari a tal fine.
Per ammissione dello stesso leader della Quarta Internazionale in via di costruzione, dunque, nel novembre del 1932 e durante il viaggio di andata verso Copenaghen Trotskij si fece una bella gitarella a Pompei con la moglie, mentre durante il ritorno in Turchia egli si fermò una seconda volta e di nuovo nell’Italia fascista di quel tempo, sempre volontariamente e sempre con l’accordo indispensabile delle autorità anticomuniste di Roma.
Spesso un’immagine vale più di mille parole, e su questa materia si può facilmente trovare un breve ma interessante filmato sulla gita di Trotskij a Pompei cliccando su internet “Leon Trotsky: Trotsky visits the ruins of Pompeii with his wife, Natalia Sedova” (online footage.tv, 18 giugno 2015); oppure si può osservare la foto con Trotskij e sua moglie a Pompei ricercando “Leon Trotsky Russian statesman, visiting Pompeii with his wife”. 
Si tratta forse di un’altra falsificazione stalinista, Ferrando?”
È stato fin troppo facile evidenziare la totale vacuità e inconsistenza delle corbellerie partorite in questo caso specifico dalla fallimentare micro direzione del PCL: ma ormai, di fronte a un caso clinico di natura politica talmente disperato, conviene proprio pensare ad altro.

10 gennaio 2019

Nessun commento:

Posta un commento