giovedì 2 gennaio 2020

L'Internazionale

Di Danila Cucurnia e Guido Fontana Ros

 

La versione in uso in Italia

Perché ripetere, magari copiando, quando una cosa è ben spiegata da qualcun altro? Ecco perché riportiamo integralmente dal sito Rock e Martello l'ottimo articolo di Gianni Lucini che ci fornisce un quadro accurato di come questa versione dell'Internazionale sia stata adottata in Italia:

l 1° maggio 1921 il giornale “L’Ordine Nuovo”, diretto da Antonio Gramsci, pubblica per la prima volta una versione italiana de L’Internazionale firmata da Bergeret che fa storcere il naso ai puristi perché non troppo aderente al testo originario francese. La scelta non è casuale. Scriverà infatti Antonio Gramsci nei "Quaderni del carcere" che i canti popolari non sono quelli scritti e ragionati a tavolino, ma quelli che il popolo adotta come suoi "perché conformi alla sua maniera di pensare e di sentire". L'analisi gramsciana del canto popolare, infatti, ha da sempre alla base un ragionamento guida: «ciò che contraddistingue il canto popolare, nel quadro di una nazione e della sua cultura, non è il fatto artistico, né l'origine storica, ma il suo modo di concepire il mondo e la vita in contrasto con la società ufficiale». Se non si comprende il senso profondo di questa concezione che è politica, ma non solo, si finisce per non capire la ragione per cui, tra le tante versioni italiane de L'internazionale", alcune delle quali sicuramente più aderenti all'originale francese di Eugène Pottier, "L'Ordine Nuovo" pubblichi il testo firmato Bergeret, uno pseudonimo che a detta di Raffaele Mario Offidani (Spartacus Picenus), ma anche di Cesare Bermani, nasconde il nome di Umberto Zanni, uno dei collaboratori della "Rassegna popolare del socialismo". Non è una traduzione originale letterariamente corretta, ma, come si diceva a quei tempi, una "traduzione libera" che vince nell'ottobre 1907 il concorso bandito dal giornale "L'Asino" per le migliori parole italiane dell'inno e viene adottata dal Partito Socialista Italiano. Non ci sono dubbi che altre versioni fossero più fedeli al testo francese scritto da Eugène Pottier, nel giugno 1871, mentre era nascosto a Parigi per sfuggire alla repressione contro la Comune. È il caso di quella che inizia "Su! Sofferenti della terra!", considerata oggi come una sorta di versione anarchica del canto e pubblicata con almeno tre titoli diversi: L'Internazionale, Su, sofferenti! e Germinal. Altri testi hanno avuto riconoscimenti ufficiali come quella che inizia con "Sorgete, o miseri del mondo!", di Spartacus Picenus, cioè Raffaele Mario Offidani, adottata nel 1919 come inno della Federazione italiana giovanile socialista. Tuttavia solo quella di Bergeret è divenuta davvero un canto popolare nel senso che Gramsci attribuiva a questa parola. Ha superato il tempo e la stessa struttura testuale, che oggi risulta arcaica nella sua costruzione, per diventare patrimonio di tutti al punto che, se si segue il criterio introdotto da Lomax, che stabilisce una divisione netta tra la ricostruzione storico filologica e lo stato di fatto, non è errato considerarla ormai un brano "tradizionale" e come tale indicarlo. La musica poi ha travalicato le frontiere del tempo, dello spazio e dei generi musicali fino a entrare anche nella storia del rock con le versioni del britannico Billy Bragg e degli italiani Area.




Il testo in italiano

Compagni avanti, il gran Partito
noi siamo dei lavoratori.
Rosso un fiore in petto c'è fiorito
una fede ci è nata in cuor.
Noi non siamo più nell'officina,
entro terra, dai campi, al mar
la plebe sempre all'opra china
Senza ideale in cui sperar.
Su, lottiamo! l'ideale
nostro alfine sarà
l'Internazionale
futura umanità!
Su, lottiamo! l'ideale
nostro al fine sarà
l'Internazionale
futura umanità!
Un gran stendardo al sol fiammante
dinanzi a noi glorioso va,
noi vogliam per esso giù infrante
le catene alla libertà!
Che giustizia venga noi chiediamo:
non più servi, non più signor;
fratelli tutti esser vogliamo
nella famiglia del lavor.
Su, lottiamo! l'ideale
nostro alfine sarà
l'Internazionale
futura umanità!
Su, lottiamo! l'ideale
nostro alfine sarà
l'Internazionale
futura umanità!
Lottiam, lottiam, la terra sia
di tutti eguale proprietà,
più nessuno nei campi dia
l'opra ad altri che in ozio sta.
E la macchina sia alleata
non nemica ai lavorator;
così la vita rinnovata
all'uom darà pace ed amor!
Su, lottiamo! l'ideale
nostro alfine sarà
l'Internazionale
futura umanità!
Su, lottiamo! l'ideale
nostro fine sarà
l'Internazionale
futura umanità!
Avanti, avanti, la vittoria
è nostra e nostro è l'avvenir;
più civile e giusta, la storia
un'altra era sta per aprir.
Largo a noi, all'alta battaglia
noi corriamo per l'Ideal:
via, largo, noi siam la canaglia
che lotta pel suo Germinal!
Su, lottiamo! l'ideale
nostro alfine sarà
l'Internazionale
futura umanità!
Su, lottiamo! l'ideale
nostro fine sarà
l'Internazionale
futura umanità!

 l_internazionale

 

La versione originaria in francese

Da Wikipedia:


Le parole originali furono scritte in francese dallo scrittore Eugène Pottier (1816-1887) nel 1871 per celebrare la Comune di Parigi. Pierre de Geyter (1848-1932) scrisse la musica nel 1888. Fino a quella data il testo veniva generalmente cantato sull'aria della Marsigliese. Ne esistono anche versioni anarchiche, cantate sia sulla musica tradizionale, sia sulla Marsigliese.[1]

L'Internazionale divenne l'inno del socialismo di ispirazione rivoluzionaria internazionale, come specifica il suo ritornello: C'est la lutte finale / Groupons-nous et demain / L'Internation

In molte nazioni europee L'Internazionale fu illegale all'inizio del XX secolo a causa della sua immagine rivoluzionaria e delle sue liriche d'ispirazione insurrezionalista, sebbene, in passato come al giorno d'oggi, sia stata e sia invece usata anche da partiti e individui che intendevano ed intendono raggiungere il socialismo mediante una via democratica e non insurrezionalista.ale / Sera le genre humain. ("È la lotta finale / Raggruppiamoci e domani / l'Internazionale / Sarà il genere umano"). La canzone è stata tradotta in innumerevoli lingue, e tradizionalmente è cantata col pugno sinistro alzato in segno di saluto.


Il testo in francese

Da Wikipedia


Debout, les damnés de la terre
Debout, les forçats de la faim!
La raison tonne en son cratère
C'est l'éruption de la fin.
Du passé faisons table rase
Foules, esclaves, debout, debout
Le monde va changer de base
Nous ne sommes rien, soyons tout!
C'est la lutte finale groupons-nous, et demain (bis)
Internationale sera le genre humain
Il n'est pas de sauveurs suprêmes
Ni Dieu, ni César, ni tribun,
Producteurs, sauvons-nous nous-mêmes
Décrétons le salut commun
Pour que le voleur rende gorge
Pour tirer l'esprit du cachot
Soufflons nous-mêmes notre forge
Battons le fer quand il est chaud.
C'est la lutte finale Groupons-nous, et demain (bis)
L'Internationale Sera le genre humain
L'état comprime et la loi triche
L'impôt saigne le malheureux
Nul devoir ne s'impose au riche
Le droit du pauvre est un mot creux
C'est assez, languir en tutelle
L'égalité veut d'autres lois
Pas de droits sans devoirs dit-elle
Egaux, pas de devoirs sans droits.
C'est la lutte finale Groupons-nous, et demain (bis)
L'Internationale Sera le genre humain
Hideux dans leur apothéose
Les rois de la mine et du rail
Ont-ils jamais fait autre chose
Que dévaliser le travail
Dans les coffres-forts de la bande
Ce qu'il a crée s'est fondu
En décrétant qu'on le lui rende
Le peuple ne veut que son dû.
C'est la lutte finale Groupons-nous, et demain (bis)
L'Internationale Sera le genre humain
Les rois nous saoulaient de fumées
Paix entre nous, guerre aux tyrans
Appliquons la grève aux armées
Crosse en l'air, et rompons les rangs
S'ils s'obstinent, ces cannibales
A faire de nous des héros
Ils sauront bientôt que nos balles
Sont pour nos propres généraux.
C'est la lutte finale Groupons-nous, et demain (bis)
L'Internationale Sera le genre humain.
Ouvriers, paysans, nous sommes
Le grand parti des travailleurs
La terre n'appartient qu'aux hommes
L'oisif ira loger ailleurs
Combien, de nos chairs se repaissent
Mais si les corbeaux, les vautours
Un de ces matins disparaissent
Le soleil brillera toujours.
C'est la lutte finale, Groupons-nous, et demain (bis)
L'Internationale, Sera le genre humain.

 linternat


La versione sovietica

Sempre da Wikipedia:

La sua versione russa fu invece l'Inno Nazionale dell'U.R.S.S. dal 1917 al 1944, quando, sostituita dal nuovo Inno dell'Unione Sovietica (la musica che vinse il concorso è del generale Aleksandr Aleksandrov), L'Internazionale divenne l'inno di partito del Partito Comunista dell'Unione Sovietica. Fu inizialmente tradotta da Aron Koc (vero nome: Arkadij Jakovlevič Koc) nel 1902 e fu pubblicata a Londra da Жизнь (Žizn',Vita), rivista per immigrati russi. La prima versione russa era formata da tre strofe e il ritornello, poi fu estesa e rimaneggiata.

Il miracolo irlandese

Di Luca Baldelli


Le sirene neoliberiste hanno cantato, per due decenni abbondanti, le magnifiche sorti e progressive del liberismo in salsa celtica dell’Irlanda. Un laissez faire quasi assoluto, che negli anni ’90 ha generato un aumento vertiginosi dei prezzi degli immobili residenziali (un appartamento veniva a costare, in quegli anni, e per tutti i primi anni 2000, l’equivalente di 3/400.000 euro). Dopo la sbornia speculativa e smithiana, la realtà della dinamica economica, in assenza di qualsiasi ruolo di razionale di programmazione da parte dello Stato, si è incaricata, anche lassù, di svelare come sotto al vestito non ci fosse nulla, se non ottimismo mal riposto e fiducia sconsiderata nella fantomatica “mano invisibile”, un arto in realtà molto evidente nel suo dare a chi aveva già è nel suo togliere a chi già aveva poco.
L’economia irlandese, drogata dalle perversioni di Smith, Friedman e compagnia, è collassata su se stessa, lasciando sul terreno, come sempre, morti e feriti tra i ceti subalterni, che mai avevano beneficiato di alcun miracolo, e tra la classe media che si era illusa di poter raggiungere il livello economico dei grandi percettori di reddito, per l’antico suo vizio di avere la puzza al naso nei riguardi dei proletari e degli operai e di orientarsi sempre verso chi intende distruggerla per concentrare ricchezza. Il primo frutto di questo collasso è stato proprio il crollo del mercato immobiliare, crollo del quale però lo Stato, fedele fino all’ultimo, nella.maniera più demenziale possibile, ai principi che avevano generato la catastrofe, non ha approfittato per ricalibrare scelte di azione e per affermare un ruolo non solo auspicabile, ma NECESSARIO, di pianificazione. Al contrario, lo Stato ha acquisito intere aree edificabili da istituti di credito ed attività economiche minati dalle insolvenze e dalle spericolate contorsioni speculative del “ventennio d’oro” e…cosa ha fatto? Non vi ha costruito o non vi ha agevolato l’edificazione di case popolari che avrebbero dato una risposta, la sola efficace e risolutiva, ai tanti senzatetto generati dagli anni del “boom” e dai contraccolpi successivi, ma ha rivenduto le aree ad agenzie orientate verso la costruzione di appartamenti e dimore di lusso, a beneficio dei soli ricchi, dei percettori parassitari o meno di alti redditi, ovvero di coloro i quali proprio non avevano bisogno di INTERVENTI STATALI. 
Risultato? I senzatetto sono aumentati a dismisura e si è arrivati al paradosso per il quale i poveri si stipano in camere d’albergo ed i ricchi acquistano appartamenti edificati, col concorso primario dello Stato, sui terreni dove, per logica, etica e pure convenienza a lungo termine, sarebbero dovuti nascere appartamenti per i poveri, i proletari e per il ceto medio impoverito, proletarizzato dai ricchi. Si dimostra dunque, ancora una volta, che non è vero che il liberismo non tollera alcun tipo di azione da parte dello Stato: esso, al contrario, non può fare a meno di un ruolo completamente “alla rovescia” dello Stato e dei pubblici poteri, assenti nella programmazione a beneficio della collettivita’ ma sempre presenti quando si tratta di redistribuire benefici a chi già ne ha tanti, arricchendo i facoltosi ed impoverendo ulteriormente lavoratori e ceto medio piccolo-borghese.  
Oggi vi sono almeno 50.000 senza tetto e quasi 100.000 famiglie in lista per una casa popolare o per una soluzione minima e necessitata di aiuto sociale in campo locativo. In questi giorni, si parla di ripartenza dell’economia irlandese, ma siamo alle solite, ed anzi emergerà in maniera ancora più evidente il danno prodotto dal neoliberismo: i prezzi delle case, fino ad ora scesi, ma,.come abbiamo visto, non al punto da renderli abbordabili da chi è a reddito fisso o si situa nei ranghi del ceto medio-basso anche con un lavoro autonomo, torneranno a salire ed allora ai senzatetto presenti se ne aggiungeranno altri ancora, visto il prevedibile ed anzi logicamente consequenziale balzo verso l’alto dei canoni di affitto e dei tassi dei mutui (questa tendenza è già visibile). E così la demenza del capitalismo è ancora una volta oscenamente evidente a chi la vuol vedere: i poveri negli alberghi a cinque stelle, in dieci per camera, oppure pigiati in condomini falangisti; i ricchi, invece, al caldo e ben protetti con tre, quattro, cinque case a testa. Aggiungiamoci che la “ripresa” che si dice in corso sta avvenendo per il traino delle esportazioni da parte delle multinazionali, presenti in Irlanda per via del regime fiscale ultrapermissivo e leggero, voluto dai governanti (a spese dei servizi sociali e dei lavoratori) e la frittata è fatta: un’economia eterodiretta ed uno Stato volutamente privatosi dei minimi strumenti di controllo ed allocazione delle risorse, genererà nuove crisi, nuovi crolli, sempre pagati dai poveri…a meno che…non venga una Rivoluzione… Ma questa è un’altra storia.
La mano invisibile del mercato


Quando Guiboud Ribaud visitò le prigioni sovietiche.

Di Luca Baldelli

La denigrazione e la demonizzazione di Gulag e prigioni sovietiche ha toccato vette inarrivabili, che solo una paziente opera di controinformazione riesce in parte a contrastare, in presenza di un’assoluta asimmetria di mezzi e possibilità per farsi sentire ed ottenere tribune adeguate onde consentire all’opinione pubblica di farsi la sua idea, libera e senza pregiudizi, nella verità e non in odio ed in contrasto ad essa. Per decenni si è parlato di milioni, decine di milioni di Sovietici finiti nelle fauci mai sazie di Gulag danteschi e prigioni lovercraftiane. Un esercito di senza nome, di schiavi, di iloti spacciati per veri dalla storiografia capitalista e borghese. Son bastati pochi storici, per giunta spesso anche anticomunisti, per vedere che nei documenti degli archivi sovietici, peraltro apertamente manipolati con l’avvento del gorbaciovismo e, soprattutto, col crollo dell’URSS, era nascosta una verità ben diversa: meno detenuti che nei mitici States e nessun regime concentrazionario da Babilonia dei tempi biblici o da hitlerismo conclamato. L’impossibile equazione tra “stalinismo” e nazionalsocialismo, ancora una volta appariva per quello che era e stavolta col conforto di numeri inoppugnabili: una vile impostura! Zemskov ed altri storici, tutti anticomunisti, liberal – democratici o indipendenti, si incaricavano di dimostrare il contrario di quel che invece sostenevano (e sostengono) trockisti e finti comunisti revisionisti.
Sarebbe bastato leggere fonti coeve, e tutte OCCIDENTALI, del resto, per rendersi conto che la storia era ben altra.
Una di queste fonti riguardava un noto avvocato francese, Guiboud Ribaud. Costui, nel 1927, espresse il desiderio di far visita alle prigioni dell’URSS, per rendersi conto di persona della situazione. Qualsiasi governo o regime che avesse avuto interesse a nascondere qualcosa, gli avrebbe o chiuso le porte o aperte solo quelle preventivamente mondate da catenacci lordi di sangue e sudore. Nulla di tutto ciò avvenne per il principe del foro francese: egli poté avere subito, telefonicamente, un elenco di centinaia di prigioni dal Commissariato DEL popolo per la giustizia della Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa e poté scegliere tutte quelle che più gli interessavano. Varcate le soglie delle prigioni prescelte, trovò un mondo per lui sorprendente: non galeotti con palle a calcagna logore e stremate, ma persone di più nazionalità che camminavano per i corridoi, sorseggiavano del tè, conversavano serenamente. Nessun idillio, ma nemmeno l’inferno da tanti millantato. Ne uscì un’opera: “Ou va la Russie?” ( Parigi 1927), con un bel capitolo, il SETTIMO, dedicato ai penitenziari.
L’opera era recensita e prefata dal grande Henri Barbusse (1873-1935), sincero amico dell’URSS e grande intellettuale francese, conterraneo di Guiboud-Ribaud.

Henri Barbusse

L’aspetto più interessante, o comunque uno dei più significativi del libro, è senza dubbio la narrazione della sorpresa derivante dal vedere individui che, condannati alla pena capitale per delitti e reati politici, si erano visti le pene drasticamente ridotte per merito della dialettica processuale, aspetto questo sempre negato dai detrattori dell’URSS, per i quali nemmeno gli avvocati sarebbero esistiti nella grande Unione dei Soviet. Mentre i Tribunali fascisti esiliavano e condannavano a morte, in Urss si redimeva e si lavorava per la correzione ed il recupero sociale del reo. L’avvocato francese, venuto in Urss con sincera voglia di capire, ma anche con in testa tanti motivi ricorrenti della propaganda antisovietica, se ne tornò al suo Paese completamente convinto della verità che aveva visto e che era, per sé stessa, indiscutibile. Egli si attirò l’odio e l’ostilità di tanti bugiardi e mediocri, ma la stima di tutti gli uomini sinceramente obiettivi, democratici, senza paraocchi. Dopo di lui, sarà la volta di Lenka Von Koerber e di tanti altri scrittori, studiosi, sociologi, i quali visiteranno le carceri sovietiche, trovando dinanzi ai loro occhi prigionieri più liberi dei cittadini liberi dei Paesi capitalisti, i quali lavoravano percependo il salario degli operai liberi e godendo di condizioni premiali assolutamente invidiabili. M. S. Callcott, negli USA, riuscirà a mandare alle stampe nel 1935 “Russian Justice“, nel quale parlerà di questo e di altri aspetti, mettendo in rilievo, senza apologie e senza incensi, la superiore (oggettivamente) realtà della civiltà sovietica.

Lenka von Koerber 


Una civiltà dove l’ingegner Ramzin, condannato nel processo del PARTITO INDUSTRIALE, non fu tenuto sempre in prigione, ma portato nell’aula dove dava lezioni, da solo o sotto scorta.
In quegli stessi anni, gioverà ricordarlo, i detenuti dei Paesi capitalisti e fascisti, segnatamente i politici, languivano tra la fame e la tisi nelle galere di sterminio alle quali i fantocci politici del grande capitale li inviavano.

FONTI

Sidney e Beatrice Webb, Il comunismo sovietico: una nuova civiltà, Torino, Einaudi, 1950
P. Guiboud Rubaud, Ou va la Russie,  Paris, Editions sociales internationales, 1928
Lenka von Koerber, Soviet Russia fights crime, London, E.P. Dutton and Co, 1935
Mary Stevenson Callcott,  Russian Justice, New York, Macmillan, 1935