domenica 19 novembre 2017

Scuole ed asili per i coloni speciali: la sollecitudine dei bolscevichi per l’istruzione e la cultura anche fra i deportati

REDAZIONE NOICOMUNISTI

DI LUCA BALDELLI




Per iniziare queste poche righe di presentazione dell’ultimo articolo del compagno Luca Baldelli, occorre spendere alcune parole sull’immagine del titolo. No, non si tratta di cittadini sovietici. Si tratta di cittadini statunitensi ritratti nello stesso periodo, metà degli anni ’30 dello scorso secolo, contemporanei dei coloni speciali o deportati in Siberia che dir si voglia. Teniamo presente che i coloni speciali erano persone che si erano macchiate di reati contro il potere sovietico e pertanto erano state trasferite in zone molto lontane dalle loro residenze. Se si paragonano le fotografie contenute in questo articolo con questa del titolo si ha l’impressione che le condizioni di vita, compatibilmente con l’asprezza del clima della Siberia, erano incomparabilmente migliori di quelle di liberi cittadini USA che avevano la sfortuna di non essere benestanti o ricchi. La maggior parte di coloro che incontreranno questo articolo si fermeranno a questo punto: invitiamo invece a proseguire nella lettura di questo articolo e del precedente. Taluni potranno avere delle sorprese…
Anche questo è il risultato della Rivoluzione d’Ottobre di cui quest’anno ricorre il centenario.

mercoledì 1 novembre 2017

Le condizioni di vita dei coloni speciali in Siberia: un documento rivelatore


REDAZIONE NOICOMUNISTI

DI LUCA BALDELLI



Stalin=Hitler, gulag=lager. Quante volte sentiamo ripetere questa mostruosità e non solo da anticomunisti, ma anche da sedicenti comunisti. Abbiamo pubblicato molti articoli su questo tema e continueremo a farlo.
Questo articolo del compagno Luca Baldelli si inserisce in questo filone storiografico: esso smantella la menzogna dei "poveri" kulaki mandati a morire nelle lande desolate della Siberia dall'uomo più malvagio della storia...

Non leggetelo, mi raccomando, fermatevi solo al titolo.

LINK AL PDF DELL'ARTICOLO

Il ruolo dell'URSS nella II Guerra Mondiale (1939-1945)

REDAZIONE NOICOMUNISTI

A CURA DI GUIDO FONTANA ROS




Abbiamo tradotto in italiano un breve scritto (12 pagine) della professoressa di storia contemporanea, Annie Lacroix-Riz, docente all'Università Paris VII - Denis Diderot. Questo testo denso di riferimenti storiografici (l'autrice è una storica, non un gazzettiere dedito alla menzogna e alla propaganda) fa giustizia sommaria delle balle che oggi, anche da chi si dichiara comunista, vengono ripetute e diffuse da legioni di ignoranti e stolti quando non in malafede.

La gioventù rivoluzionaria in URSS. Nascita e ruolo del Konsomol

REDAZIONE NOICOMUNISTI


A CURA DI GUIDO FONTANA ROS





EDIZIONI RAPPORTI SOCIALI

presenta

Un articolo del Partito dei CARC, tratto da Resistenza n.10/2017



Nella società capitalista i giovani proletari sono oppressi due volte: come proletari e come giovani dipendenti dalle famiglie e sottoposti all’autorità degli adulti. Questa doppia oppressione si manifesta chiaramente nel fatto che i giovani delle masse popolari sono destinati a una vita da precari e disoccupati, a una vita da esuberi. Nella società socialista invece non ci sono esuberi e, anzi, il contributo dei giovani è fondamentale per il progresso della società. La storia del Komsomol dell’Unione Sovietica (abbreviazione di Unione comunista della gioventù) è uno degli esempi più importanti in questo senso. Organizzati nel Komsomol, i giovani dell’URSS furono artefici fondamentali dell’edificazione del socialismo, trovando nel lavoro l’ambito in cui valorizzare le proprie aspirazioni e capacità, la voglia di imparare, di scoprire, di viaggiare, di istruirsi, di costruire un mondo nuovo, che, a differenza del vecchio, fosse anche a loro misura. Esattamente il contrario del lavoro inteso nella società capitalista, un concentrato di ricatti, privazioni, sfruttamento, umiliazioni e rinunce.

Per comprendere la storia e la funzione del Komsomol bisogna tenere presenti le differenze tra la condizione dei giovani nella Russia di allora e quella dei giovani nel nostro paese oggi. In Russia i giovani erano principalmente operai, lo studio era riservato alle classi abbienti e solo con la rivoluzione socialista i giovani proletari conquistarono il diritto all’istruzione. Nel nostro paese i giovani delle masse popolari sono principalmente studenti, perché sull’onda della prima ondata della rivoluzione proletaria mondiale scaturita proprio dalla Rivoluzione d’Ottobre, anche le masse popolari italiane hanno conquistato il diritto all’istruzione (oggi pesantemente sotto attacco). Ma l’oppressione che subivano i giovani nella Russia zarista e quella che subiscono oggi i giovani dei paesi imperialisti è della medesima natura, ha le stesse cause, e uguale è il bisogno di scrollarsela di dosso.

Ultima nota introduttiva: in seguito alla morte di Stalin (1953) e all’avvento al potere dei revisionisti con Krushev (1954), al pari dell’intera società socialista (vedi “Le tre fasi dei primi paesi socialisti” su Resistenza n. 9/2017), anche il Komsomol perse progressivamente quel ruolo di spinta nell’educazione, nella formazione, nell’organizzazione dei giovani; lassismo e corruzione crescenti offuscarono gravemente l’immagine dell’organizzazione giovanile che si sciolse definitivamente nel 1990, mentre i suoi dirigenti ormai corrotti prendevano posto tra gli oligarchi dell’attuale Russia. Questa parabola è rappresentativa del corso seguito dai primi paesi socialisti, lo sottolineiamo per due motivi. Il primo è avvertire il lettore a non sottovalutare mai, nell’analisi dell’esperienza dei primi paesi socialisti, il valore e il peso che ebbe la svolta del 1954: iniziò il periodo in cui primi paesi socialisti, e in particolare l’URSS, furono diretti da chi promuoveva un graduale ritorno al capitalismo, un periodo caratterizzato da un progressivo e costante smantellamento delle conquiste ottenute nella fase precedente, quella della rivoluzione socialista e dell’edificazione del socialismo. Il secondo è stimolare il lettore a ragionare sulle obiezioni circa il presunto superamento dell’esperienza sovietica (“è roba del passato”): si tratta in verità del più alto livello raggiunto dall’umanità nel suo sviluppo e per vedere qual è il futuro possibile che abbiamo di fronte, dobbiamo rivolgere lo sguardo esattamente in quella direzione e a quel periodo storico.



Prima del Komsomol: il ruolo del Partito comunista
Dopo la rivoluzione democratico-borghese del febbraio 1917 che abbatté lo zarismo, le masse popolari poterono disporre delle libertà democratiche di parola, di stampa, di associazione, di riunione e di manifestazione prima proibite. Nei più grandi centri industriali, anzitutto a Pietrogrado, cominciarono a sorgere Unioni della gioventù operaia. Circa centomila giovani operai incolonnati dimostrarono il Primo Maggio del 1917 contro la Grande Guerra e per la pace, per più ampi diritti politici e per il miglioramento delle condizioni economiche. Non si trattò di un movimento spontaneo, ma frutto del lavoro di propaganda e di organizzazione svolto dai giovani proletari del Partito comunista. Per conquistare il suo ruolo sulla gioventù, il Partito bolscevico condusse una lotta accanita contro i menscevichi e i socialisti rivoluzionari, che volevano limitare l’attività delle Unioni della gioventù operaia a un lavoro puramente culturale. I bolscevichi lavorarono invece per orientare le Unioni affinché fossero l’ambito nel quale i giovani proletari potevano contribuire alla lotta contro il regime borghese, alla rivoluzione socialista. Nel VI Congresso del Partito bolscevico (luglio 1917), che si tenne poco prima della Rivoluzione d’Ottobre e nel corso del quale il Partito si orientò verso l’insurrezione armata, fu affrontata con attenzione la questione delle Unioni giovanili: menscevichi e trotzkisti erano contrari a che la gioventù avesse le proprie organizzazioni, il Congresso deliberò invece che gli organismi del Partito dovevano mobilitarsi per promuovere e favorire la costituzione di organizzazioni socialiste della gioventù operaia indipendenti. Secondo le parole di Lenin infatti:

“Senza una completa autonomia, la gioventù non potrà educare nelle sue file dei buoni socialisti e non potrà prepararsi a far progredire il socialismo” – da Lenin, Opere Complete, vol. 23, Editori Riuniti, Roma, 1967.
Proprio per questo stretto legame con il Partito, nel corso della rivoluzione d’ottobre e della successiva guerra civile (1917 – 1922) i membri delle Unioni giovanili furono nelle prime file dei combattenti che presero d’assalto il vecchio mondo per instaurare il potere sovietico. Con la vittoria della rivoluzione socialista la necessità di costruire un’Unione giovanile di tutta la gioventù sovietica si fece maggiore. Essa doveva aiutare il Partito e il governo a formare la gioventù alla lotta di classe, una gioventù istruita e colta, intraprendente e risoluta, capace di edificare la nuova società socialista.

Nascita del Komsomol
Il 29 ottobre 1918 si riunì a Mosca, su spinta del Partito bolscevico, il primo Congresso panrusso delle Unioni della gioventù operaia e contadina. 176 delegati rappresentarono 22.100 membri delle Unioni. Presidente onorario del Congresso fu eletto Lenin, che in seguito ricevette i delegati.

Il primo Congresso approvò come base dell’organizzazione giovanile che stava per sorgere tre principi imprescindibili: – l’Unione è solidale con il Partito Comunista russo (bolscevico); – l’Unione si propone di diffondere le idee del comunismo e di attirare la gioventù operaia e contadina nell’attiva edificazione della Russia sovietica; – l’Unione è un’organizzazione indipendente, che lavora sotto la direzione del Partito.

Nasceva così l’Unione comunista della gioventù, abbreviata in Komsomol, ideologicamente legata al Partito. “La formazione del Komsomol – scriverà 20 anni dopo Mikail Kalinin (presidente del presidium del soviet supremo dell’URSS dal 1919) – è stata in sostanza un nuovo passo avanti verso l’edificazione del socialismo nel nostro paese”.

Il Komsomol nella lotta per l’edificazione del socialismo La successiva, difficile, prova per il nuovo potere sovietico, dopo la guerra civile, era la ricostruzione del paese e la trasformazione della Russia arretrata in un paese industrializzato. Al XIV Congresso del Partito, nel 1925, Stalin espose il piano dell’industrializzazione socialista indicando che in questo consisteva l’essenza della linea generale del Partito. Il Komsomol ebbe un ruolo di primo piano nell’attuazione di questa linea. Nuove masse di giovani erano coinvolte nella produzione mano a mano che si sviluppava l’industria e faceva la sua comparsa nella storia dell’umanità la generazione che non aveva conosciuto il giogo del capitalismo. Si trattava di organizzare questa generazione, di insegnarle una professione, di educarla al lavoro, alla responsabilità di fronte alle masse popolari.

Su iniziativa del Komsomol cominciarono a sorgere in tutto il paese, in migliaia di aziende, brigate d’assalto della gioventù, con il compito di aumentare la produttività del lavoro, impiegando meglio le macchine e i materiali. Esse esprimevano nuovi rapporti coscienti, socialisti, verso il lavoro. Anche nelle campagne il Komsomol organizzò mobilitazioni di massa per il raccolto e la collettivizzazione e, assieme ai membri del Partito, contribuì a organizzare i Colcos (fattorie collettive). Le brigate d’assalto avviarono un movimento d’emulazione tra i giovani di tutto il paese. Alla fine del Primo Piano Quinquennale (1928 – 1933, ma il Piano fu concluso un anno prima per il raggiungimento in anticipo degli obiettivi prefissati) un milione e mezzo di giovani si erano uniti alle brigate d’assalto. Sempre Kalinin scriveva:

“tutto il Komsomol si è trasformato in una brigata d’assalto e il movimento cominciato dietro sua iniziativa, si è trasformato in un’emulazione alla quale aderiscono tutti gli operai e che ha radicalmente mutato i rapporti verso il lavoro, elevandoli a cime mai viste”.
Il Komsomol fornì, fra il Primo e il Secondo Piano Quinquennale (1933 – 1937, concluso anch’esso in anticipo), 300.000 giovani per i cantieri, che furono la spina dorsale della mano d’opera per la costruzione di importanti infrastrutture e città come le famose officine di trattori di Stalingrado, la centrale idroelettrica del Dniepr, la metropolitana di Mosca e, nel lontano oriente, la città industriale che portava il suo nome, Komsomolsk.



Dopo gli anni difficili della ricostruzione socialista, si pose il problema di padroneggiare i più moderni e progrediti mezzi tecnici di cui era ora fornita la nuova industria sovietica. Il Partito comunista, diretto da Stalin, pose come questione centrale la conquista della tecnica. Nel 1934, secondo dati incompleti, 170.000 giovani comunisti e 860.000 giovani operai e operaie, più della metà della gioventù occupata allora nelle industrie, affrontarono e superarono con successo gli esami tecnici. Nelle campagne l’80% degli autisti e meccanici dei nuovi mezzi, trattori e mietitrebbiatrici, erano giovani. Il frutto migliore di questo costante lavoro, e in particolare riguardo l’assimilazione della tecnica, fu il movimento stachanovista: il 31 agosto del 1935 un giovane minatore, Stachanov, in occasione della Giornata internazionale della gioventù, raggiunse un primato mai conosciuto prima di allora, mettendo a punto una nuova tecnica lavorativa che gli consenti di superare di 14 volte la norma di carbone estratto in un turno di lavoro. Ben presto migliaia di giovani ne seguirono l’esempio, ingrossando le fila del movimento stachanosvista e mettendo a punto in ogni ambito lavorativo nuove procedure e forme di organizzazione del lavoro, che permettevano di aumentare la produttività e diminuire la fatica. Negli stessi anni i giovani si impadronivano anche della scienza e della cultura, grazie alle nuove possibilità di studio offerte dallo stato socialista: il Komsomol, negli anni dei primi due Piani Quinquennali, fornì all’URSS 118.000 ingegneri, 69.000 agronomi, 91.000 maestri, 9.000 medici. Nel 1938, alla vigilia della nuova guerra mondiale, per la quale avrebbe fornito numerosi giovani combattenti per l’armata rossa, il Komsomol arrivava ad avere 3.345.000 iscritti.


NON E' UN PARAGONE FORZATO, E' UN ESERCIZIO A RAGIONARE.
Ognuno dei nostri lettori faccia un paragone fra il processo di mobilitazione dei giovani delle masse popolari nell’Unione Sovietica e il contenuto della Buona scuola, dei vari Erasmus, progetto giovani, alternanza scuola-lavoro, stage, dote scuola, gli effetti degli sgravi fiscali alle aziende che assumono giovani, la favola delle start up, la falsa prospettiva di un reddito minimo garantito, del reddito di cittadinanza, del reddito sociale, ecc. C’è un’alternativa a questo mondo virtuale che nasconde il deserto mortifero in cui, se va bene, si riesce a sopravvivere. E’ la lotta politica rivoluzionaria per il socialismo. Milioni di giovani e giovanissimi delle masse popolari ci porgono un testimone che i giovani delle masse popolari dei paesi imperialisti possono e devono raccogliere. Raccogliamolo, nella Carovana del (nuovo)PCI.

Il volo di Pjatakov

REDAZIONE NOICOMUNISTI

A CURA DI GUIDO FONTANA ROS






Coscienti di dare un dispiacere ai credenti della Chiesa di Trotskij nonché a coloro che pensano che il Che Guevara sia un ibrido fra Madre Teresa da Calcutta, Papa Francesco e Jovanotti, insomma i "sinistri" attuali che infestano la nostra nazione, presentiamo la fatica editoriale di alcuni compagni che hanno minuziosamente esaminato e sottoposto a un'indagine improntata a una ferrea logica, una delle accuse che durante i noti Processi di Mosca furono rivolte agli imputati.

Dal 19 ottobre 2017 è disponibile il libro “Il volo di Pjatakov. La collaborazione tattica tra Trotskij e i nazisti” di Daniele Burgio, Massimo Leoni e Roberto Sidoli, pubblicato dalla casa editrice PGreco edizioni, pag. 596, euro 28,00.
Il saggio può anche essere richiesto direttamente alla casa editrice PGreco Mimesis edizioni (tel. 02 24416383 – email: ordini@edizionipgreco.it www.edizionipgreco.it) al costo di euro 23,80 compreso spese di spedizione (con pagamento paypal, bonifico ecc.).

Dal 19 ottobre 2017 è disponibile il libro “Il volo di Pjatakov. La collaborazione tattica tra Trotskij e i nazisti” di Daniele Burgio, Massimo Leoni e Roberto Sidoli, pubblicato dalla casa editrice PGreco edizioni, pag. 596, euro 28,00.

Il saggio può anche essere richiesto direttamente alla casa editrice PGreco Mimesis edizioni (tel. 02 24416383 – email: ordini@edizionipgreco.it www.edizionipgreco.it) al costo di euro 23,80 compreso spese di spedizione (con pagamento paypal, bonifico ecc.).




CAPITOLO SECONDO

Linköping e i nove “buchi neri” di Gulliksen

Partiamo dall’esame critico della “seconda versione” proprio nella sua tradizionale roccaforte, e cioè la tesi secondo cui il volo clandestino di Pjatakov non era avvenuto (e non poteva in ogni caso avvenire) nel dicembre del 1935 per la semplice ragione che nessun aereo straniero era giunto in volo dall’estero in Norvegia nel mese preso in esame, né tantomeno nell’aeroporto di Kjeller posto vicino a Oslo, indicato dalla pubblica accusa stalinista nel gennaio del 1937 come punto di scalo e di arrivo di Pjatakov sul suolo norvegese. Pertanto mancavano totalmente i mezzi materiali e l’opportunità concreta affinché quest’ultimo potesse compiere, partendo da Berlino, il suo presunto volo/colloquio segreto con Trotskij, che a sua volta nel dicembre del 1935 sicuramente risiedeva a Honefoss, cittadina collocata nella parte meridionale della Norvegia e a circa cinquanta chilometri di distanza da Kjeller.

Anche per noi risulta evidente l’importanza del problema, ma lo poniamo in modo diverso: se nessun velivolo proveniente dall’estero e da paesi stranieri fosse arrivato sul suolo norvegese nel dicembre del 1935, se nessun aereo – senza far distinzione di nazionalità tra i vettori aereonautici – fosse giunto negli aeroporti norvegesi nel dicembre del 1935, se nessun aereo proveniente dall’estero – sempre senza far distinzione di nazionalità tra i velivoli – fosse giunto nell’aeroporto di Kjeller nel dicembre del 1935, allora il volo di Pjatakov non sarebbe mai esistito. E a catena, non sarebbe mai potuto avvenire l’incontro clandestino tra Pjatakov e Trotskij; e a catena, Pjatakov avrebbe detto clamorosamente il falso, e Trotskij invece la verità sul (presunto) volo a Kjeller; e di conseguenza cadrebbe subito la tesi sull’esistenza di rapporti di collaborazione politica tra Trotskij e alcuni gerarchi nazisti.

Siamo pertanto in presenza di un punto nodale e decisivo per la questione dell’esistenza/inesistenza del volo di Pjatakov.

Nessun aereo proveniente dall’estero, dal di fuori dei confini norvegesi, nel dicembre del 1935. Se questa fosse stata realmente la situazione in Norvegia nel fatidico mese di dicembre del 1935, per Pjatakov sarebbe stato assolutamente impossibile raggiungere la zona vicino Oslo partendo da Berlino, in cui egli si trovava a quel tempo in visita ufficiale, visto che qualunque altra forma di trasporto avrebbe portato via all’allora viceministro sovietico per l’industria pesante troppo tempo per il viaggio di andata e ritorno, e cioè due giorni di andirivieni (treno/auto per i confini settentrionali della Germania, traghetto per le coste norvegesi, treno/auto per la zona norvegese di Honefoss dove allora risiedeva Trotskij, ritorno a Berlino per via terrestre/marittima, ecc.); tale ipotetica modalità di viaggio avrebbe comportato inoltre troppi controlli doganali e troppi possibili testimoni lungo il tragitto, oltre a un’assenza eccessivamente prolungata e vistosa da Berlino, dal personale sovietico operante in loco e dagli obblighi diplomatici, dagli incontri ufficiali che comporta inevitabilmente una missione politico-commerciale in paesi esteri.

Nessun aereo proveniente dall’estero, dal di fuori dei confini norvegesi, nel dicembre del 1935: in questo caso a Pjatakov sarebbero mancati in modo assoluto sia i mezzi materiali che le opportunità per compiere il suo volo a Kjeller e quindi per vedere Trotskij, e sia i mezzi che le opportunità risultano di sicuro due elementi centrali, al fine di verificare l’esistenza di un particolare “delitto” quale il volo clandestino in via d’esame.

È questa la premessa fondamentale del punto di forza (apparente) della “seconda versione” rispetto al quale vogliamo confrontarci, specificando ancora che la frase e il concetto “nessun aereo proveniente dall’estero in Norvegia, dal di fuori dei confini norvegesi, nel dicembre del 1935” non deve assolutamente far distinzione di nazionalità tra gli aerei: deve comprendere infatti gli aerei di nazionalità estera e non norvegese (argentini, finlandesi, cubani, britannici e via elencando, senza eccezione) come anche gli stessi aerei norvegesi, i velivoli di nazionalità norvegese.

Se invece emergesse che anche un solo velivolo proveniente dall’estero fosse giunto nell’aeroporto di Kjeller nel dicembre del 1935, sempre senza alcun riguardo rispetto alla nazionalità dell’aereo proveniente da fuori dei confini della Norvegia, crollerebbe subito il caposaldo della “seconda versione”, ossia l’impossibilità materiale del volo di Pjatakov e l’assoluta mancanza di mezzi e opportunità per il volo di quest’ultimo, a causa dell’assenza di aeroplani giunti da paesi stranieri sul suolo norvegese e a Kjeller nel mese in via d’esame: a Pjatakov bastava infatti usare un solo e unico aereo, per compiere il viaggio di andata e ritorno da Berlino alla Norvegia.

Sembra solo una banale specificazione, assolutamente ragionevole e quasi scontata, ma non risulta né banale né scontata e, come vedremo, assumerà subito una certa importanza: non fu infatti un caso che sia l’intelligente e astuto Trotskij che l’astuto Gulliksen non abbiano parlato mai di “un volo proveniente dall’estero” ma invece di un “aereo straniero”, giunto a Kjeller ovviamente provenendo dall’estero, concentrando da abili illusionisti l’attenzione proprio su tale punto.

A questo punto andiamo al sodo esaminando proprio la testimonianza resa nel gennaio del 1937 da T. Gulliksen, un militare norvegese che dirigeva l’aeroporto di Kjeller nel dicembre del 1935.

Si tratta di una testimonianza accettata come assolutamente valida da Trotskij, dai sostenitori della “seconda versione” e dagli storici occidentali in genere, con il protagonista (Gulliksen) che si trovava in Norvegia, non certo a Mosca e pertanto fuori dalle grinfie di Stalin: non vi è alcun sospetto che egli fosse un simpatizzante nascosto di Stalin e anzi, come si vedrà tra poco, egli risulta come minimo un testimone assai reticente e molto sospetto, ma tuttavia proprio Gulliksen, e con le sue stesse parole, ci fornisce involontariamente tutta una serie di prove concrete che demoliscono dalla radice la tesi dell’impossibilità materiale (nessun mezzo, nessuna opportunità) del volo di Pjatakov.

Rispondendo per via telefonica, alla fine del gennaio del 1937, alle domande rivoltegli da un giornalista del quotidiano socialdemocratico Arbeiderbladet (controllato dal partito laburista norvegese, allora al governo) e la cui trasposizione corretta egli confermò in seguito per iscritto, Gulliksen infatti affermò dopo aver “esaminato il registro giornaliero” che “nessun aereo straniero atterrò a Kjeller nel dicembre del 1935. Durante quel mese” (dicembre del 1935) “solo un aereo atterrò qui” (nell’aeroporto di Kjeller, diretto allora dallo stesso Gulliksen), “ed esso fu un aereo norvegese proveniente da Linköping. Ma quell’aereo non conteneva passeggeri”.

Inoltre Gulliksen sottolineò che dal 19 settembre del 1935, quando atterrò a Kjeller un aereo inglese guidato dal “signor Robertson”, fino al 1° maggio del 1936 nessun aereo straniero giunse nell’aeroporto di Kjeller.

Durante la tredicesima sessione della commissione Dewey, Trotskij stesso riportò la versione dei fatti pubblicata dal quotidiano laburista norvegese Arbeiderbladet, nella quale si sostenne che “un rappresentante dell’Arbeiderbladet ha fatto un’altra ricerca presso l’aeroporto di Kjeller, e il suo direttore Gulliksen ha confermato per telefono che nessun aereo straniero è atterrato a Kjeller nel dicembre del 1935. Durante questo mese solo un aereo è atterrato qui, e fu un aereo norvegese che arrivava da Linköping. Ma questo aereo non conteneva passeggeri. Il direttore Gulliksen ha esaminato il registro giornaliero prima di fornirci questa dichiarazione, e rispondendo alla nostra domanda aggiunse che è assolutamente fuori questione per alcun aereo di atterrare senza essere osservato, visto che durante la notte una guardia militare sorveglia l’aeroporto”.

Il nostro giornalista chiese al direttore Gulliksen: “quando fu l’ultima volta, prima del dicembre del 1935, che un aeroplano straniero è atterrato a Kjeller?”.
“Il 19 settembre. Era un aereo inglese, SACSF, da Copenaghen. Era pilotato da un pilota inglese, Mr. Robertson, con il quale sono in buoni rapporti”.
“E dopo il dicembre del 1935, quando il primo aereo straniero atterrò a Kjeller?”.
“Il primo di maggio del 1936”.
“In altre parole, in accordo con le registrazioni tenute all’aeroporto, questo stabilisce che nessun aereo straniero è atterrato a Kjeller nell’intervallo tra il 19 settembre del 1935 e il primo maggio del 1936?”.
“Si”.
Poche parole e tante prove emergono dalla testimonianza di Gulliksen, ma con una sorta di involontario “fuoco amico” contro la tesi che nega l’esistenza del volo di Pjatakov.

Prima prova sicura fornita da Gulliksen: l’aeroporto di Kjeller risultò sicuramente aperto e funzionante nel dicembre del 1935, visto che “solo un aereo atterrò qui”. Lasciando stare per un attimo la frase “solo un aereo”, secondo lo stesso Gulliksen perlomeno un “aereo atterrò qui”, a Kjeller e nel dicembre del 1935, e pertanto l’aeroporto di Kjeller risultava certamente operativo e funzionante nel dicembre del 1935. Parola di Gulliksen, e non certo di Stalin: l’aeroporto di Kjeller, situato vicino a Oslo, accoglieva aerei e non risultava certo chiuso nel dicembre del 1935, come del resto risulta da un rapporto che venne elaborato dalle autorità aeroportuali di Kjeller a fine febbraio del 1937 e su cui ritorneremo.

Seconda prova sicura fornita da Gulliksen: come minimo un aereo viaggiava e volava realmente nei cieli della Norvegia, nel dicembre del 1935. In altri termini, con la sua affermazione Gulliksen ha provato senza lasciare spazio ad eventuali dubbi che la Norvegia meridionale del dicembre del 1935 non si era in alcun modo trasformata in una sorta di “triangolo delle Bermude”, ossia in una zona in cui era impossibile volare e atterrare per gli aerei operanti e attivi nel 1935.

Terza prova sicura fornita da Gulliksen: almeno un aereo era realmente atterrato nell’aeroporto di Kjeller proprio nel dicembre del 1935, ossia nello stesso mese in cui si svolse (secondo la tesi stalinista) il volo di Pjatakov e il colloquio segreto tra quest’ultimo e Trotskij.

Nessun dubbio è possibile, in proposito: Gulliksen disse chiaramente che “nel dicembre del 1935” – dicembre – “un aereo” (certo, un solo aereo: ma ci torneremo) “atterrò qui” a Kjeller, mentre Pjatakov a sua volta affermò che il suo viaggio diplomatico ufficiale a Berlino era avvenuto proprio nel dicembre del 1935 e poco dopo il suo arrivo nella capitale tedesca, in data 10 o 11 dicembre 1935, verificandosi quindi proprio nel mese indicato da Gulliksen.

Forniamo inoltre altre prove sicure (non fornite questa volta da Gulliksen, ma su cui Gulliksen avrebbe concordato) di carattere tecnico-logistico, e cioè che:

  • a Berlino, nel dicembre del 1935, esisteva un aeroporto di buona qualità come quello di Tempelhof;
  • nel 1935 a Berlino esistevano aerei (tedeschi o di marca straniera) capaci di effettuare lunghe distanze, assai più prolungate di quella Berlino-Oslo (nel 1927 e otto anni prima del 1935, C. Lindberg aveva ad esempio trasvolato senza sosta l’Atlantico coprendo una distanza di ben 5860 chilometri);
  • Berlino dista da Oslo 839 chilometri in linea diretta, con una rotta aerea invece pari a 1031 chilometri;
  • il viaggio aereo tra Berlino e Oslo richiedeva nel 1935 circa quattro ore per un aereo di trasporto di medie prestazioni in condizioni metereologiche normali, senza compiere uno scalo intermedio;
  • lo statunitense J. H. Doolittle nel settembre del 1929 aveva simulato con successo un volo strumentale, mentre nel maggio del 1932 era stato compiuto il primo volo strumentale in solitaria;
  • fin dal 1931 proprio i piloti tedeschi erano addestrati al volo strumentale e quindi in grado di volare anche di notte, oltre ad avere una radio a bordo;
  • esistevano altresì aerei che portavano più di due passeggeri a bordo, come ad esempio l’aereo tedesco Junkers JU 52 del 1931, capace di portare fino a diciotto passeggeri da Berlino a Roma senza scalo e volando sopra le Alpi in circa otto ore;
  • esistevano altresì aerei come il tedesco Messerschmitt BF 108 nella versione B, capace di portare tre passeggeri oltre al pilota e con un’autonomia di volo di circa 1000 km, che entrò in servizio proprio nel 1935;
  • la Norvegia stessa acquistò alcuni aerei tedeschi del modello Messerschmitt BF 108, prima del 1939.
Giudici-lettori: “D’accordo, diamo per assodati e sicuri i dati di fatto geografici e tecnici di cui sopra, ma arriviamo al punto per favore: abbiamo infatti verificato che in Norvegia si poteva volare e atterrare, nel dicembre del 1935, oltre che un aereo risulta atterrato a Kjeller proprio nel dicembre del 1935 e nel mese in cui si sarebbe svolto il presunto/reale volo di Pjatakov.".
Ma la sostanza della questione è diversa, come ammesso da voi in precedenza, e riguarda invece l’impossibilità materiale del volo di Pjatakov, derivata a sua volta dal fatto che nessun aereo era giunto in Norvegia da fuori dei confini norvegesi, nel dicembre del 1935, e Gulliksen dice chiaramente che nessun aereo proveniente dall’estero era arrivato a Kjeller nel dicembre del 1935, oltre che nel suo aeroporto era arrivato solo un aereo norvegese sempre in quel periodo”.

No, cari giudici-lettori: l'astuto Gulliksen certo ci informa che nessun aereo straniero era atterrato a Kjeller nel dicembre del 1935, ma è costretto (seppur in modo assolutamente reticente) anche a rivelarci che l’aereo “norvegese” di cui parla era partito da Linköping.

È questa la quarta e decisiva prova testimoniale – sicura e inequivocabile – che ci fornisce Gulliksen: l’aereo “norvegese” giunto a Kjeller nel dicembre del 1935 proveniva a suo dire da Linköping. Dall’aeroporto di Linköping.

Un fatto sicuro: Linköping, la città di Linköping.
Avvocato del diavolo: “Ma cosa avrebbero di tanto particolare Linköping, la città e l’aeroporto di Linköping?”.
Linköping ha di particolare per il nostro “giallo” il fatto, sicuro e incontestabile, di non essere una città norvegese, nel 2017 come nel 1935: viceversa Linköping risultava nel dicembre del 1935 ed è tuttora un centro urbano svedese, collocato fuori dai confini della Norvegia.

Colpo di scena, giudici-lettori.
Linköping è una città svedese, e lo era anche nel 1935: non si tratta di un’informazione fasulla proveniente dalla “scuola stalinista di falsificazione” (Trotskij rispetto ai processi di Mosca), ma viceversa di una realtà sicura e certa, come del resto l’esistenza e l’operatività di un aeroporto nel centro urbano svedese di Linköping anche nel dicembre del 1935.
Se dunque Linköping risultava nel 1935 una città svedese (controlla pure su Internet, avvocato del diavolo), anche seguendo la testimonianza di Gulliksen l’aereo realmente atterrato a Kjeller nel dicembre del 1935 proveniva dall’estero, da fuori dei confini norvegesi: fatto sicuro, certo e inequivocabile, tra l’altro fornito dall’insospettabile (per la “seconda versione”) Gulliksen e riportato dallo stesso Trotskij, nella sua deposizione della commissione Dewey e durante la tredicesima sessione di quest’ultima. Controlla pure su Internet, avvocato del diavolo, anche su tale punto specifico.

Logica, sicura e inevitabile conseguenza: dato per assodato che Linköping risultava nel dicembre del 1935 una città svedese e con un aeroporto in loco, l’aereo norvegese proveniente “da Linköping” giungeva pertanto dall’estero e da fuori dei confini norvegesi, anche e proprio in base alla testimonianza del reticente Gulliksen.

E a catena, visto che tale aereo proveniva sicuramente da fuori dei confini norvegesi, diventa subito falsa la tesi secondo cui nessun aereo proveniente dall’estero fosse arrivato in Norvegia e a Kjeller, durante il dicembre del 1935; in altri termini, crolla subito e totalmente la tesi sull’impossibilità materiale per Pjatakov di compiere un viaggio da Berlino a Oslo, inattuabilità che come si è già notato costituiva a sua volta il punto forte della “seconda versione”, almeno finora.

Bisognava provare innanzitutto che il volo di Pjatakov a Oslo non fosse impossibile nel dicembre del 1935, e che quindi Pjatakov avesse mezzi e opportunità per compiere il suo volo nella zona di Oslo nel dicembre del 1935: sotto questo aspetto cosa abbiamo finora trovato, grazie a Gulliksen?

  • Abbiamo avuto l’informazione in base alla quale l’aeroporto di Kjeller era certamente aperto e operativo, nel dicembre del 1935.
  • Abbiamo scoperto che realmente si volava, viaggiava e atterrava in Norvegia e a Kjeller, durante il dicembre del 1935: nessun “triangolo delle Bermude” proiettato in terra nordica, pertanto, nel mese in esame.
  • Abbiamo scoperto che un aereo risultava realmente atterrato a Kjeller, proprio nel dicembre del 1935 e proprio nel mese in cui Pjatakov era arrivato in missione diplomatica a Berlino.
  • Abbiamo soprattutto ottenuto la rivelazione che l’unico aereo, il solitario velivolo atterrato a Kjeller nel dicembre del 1935 proveniva sicuramente dall’estero, da fuori dei confini norvegesi: da Linköping e dalla Svezia, se non altro secondo le dichiarazioni dell’ufficiale militare T. Gulliksen.
  • Inoltre ormai sappiamo che nel dicembre del 1935 l’aereo proveniente dall’estero e atterrato a Kjeller risultava distante solo cinquanta chilometri da Honefoss e dalla cittadina norvegese nella quale risiedeva indubbiamente Trotskij, durante il mese che ci interessa.
Siamo inoltre ormai a conoscenza che a Berlino, nel dicembre del 1935, esistevano aerei e aeroporti moderni e abbiamo appreso che a Kjeller, punto d’arrivo norvegese del presunto/reale volo di Pjatakov, esisteva ed era soprattutto operativo in quel mese un aeroporto; sappiamo che il volo da Berlino a Oslo (circa mille chilometri) risultava più che fattibile sul piano tecnico nel 1935, e a tal fine basta solo ricordare la celebre transvolata oceanica di Lindbergh del maggio 1927 e avvenuta circa otto anni prima del dicembre 1935.

Conclusione inevitabile, a Pjatakov quindi non mancavano né i mezzi né le opportunità per compiere un volo da Berlino a Oslo (e ritorno) nel dicembre del 1935: non solo non sussisteva alcuna impossibilità assoluta rispetto al viaggio aereo, ma anzi erano ben presenti tutti i presupposti e le condizioni concrete per il trasferimento dell’allora viceministro dell’industria pesante sovietica da Berlino a Kjeller, in terra norvegese, a partire proprio dall’arrivo a Kjeller dall’estero di quel misterioso velivolo del dicembre 1935 su cui torneremo tra poco.
Addio per sempre, quindi, all’ormai defunta teoria sull’impossibilità materiale del volo di Pjatakov verso la Norvegia nel dicembre del 1935, e più precisamente il 12 o 13 dicembre.

Perché comunque fermarsi solo a questi elementi di fatto e alla demolizione di una tesi divenuta ormai insostenibile? Abbiamo già notato che involontariamente Gulliksen si rivela una ricca fonte di informazioni, ma a vantaggio dell’esistenza concreta del volo di Pjatakov.

Un altro elemento sicuro, fornito dall’allora direttore dell’aeroporto di Kjeller, consiste nell’indiscutibile elemento in base al quale un solo aereo (e uno solo) atterrò a Kjeller nel dicembre del 1935, e guarda caso esso proveniva dall’estero, mentre la quota risultava viceversa pari a zero per gli aerei invece provenienti dalla stessa Norvegia e diretti/atterrati a Kjeller, sempre nei trentun giorni in via d’esame.

Rileggiamo infatti attraverso una prospettiva diversa le dichiarazioni di Gulliksen, giudici-lettori. Gulliksen rivelò testualmente che a Kjeller, nel dicembre del 1935, “solo un aereo atterrò qui”: frase apparentemente innocua, se staccata e avulsa dal fatto (sicuro) che tale aereo proveniva dal di fuori dei confini norvegesi, ma che va ora invece letta e interpretata in una luce molto sfavorevole per la “seconda versione” che nega l’esistenza del volo di Pjatakov.

Stando alle affermazioni dello stesso Gulliksen, infatti, nessun velivolo atterrò a Kjeller nel dicembre del 1935 provenendo dagli altri aeroporti norvegesi, a parte per l’appunto la clamorosa eccezione del volo giunto dall’estero, e almeno a suo dire da “Linköping”.
In altri termini: numero di aerei giunti a Kjeller provenienti dagli altri aeroporti norvegesi uguale a zero, nel dicembre 1935.
Aerei invece giunti nel dicembre del 1935 a Kjeller partendo da aeroporti esteri, non norvegesi: uno.
Si tratta di un’asimmetria notevole, che fa pensare inevitabilmente: “ma non è un fatto strano che l’unico e solitario velivolo atterrato a Kjeller nel dicembre del 1935 provenisse dall’estero e dal di fuori dei confini norvegesi, mentre sappiamo che il presunto/reale viaggio di Pjatakov è collocato temporaneamente proprio nel dicembre del 1935?”.

Ulteriore elemento sicuro, fornito involontariamente da Gulliksen: il fatto sicuro per cui dal 18 settembre del 1935 al 30 aprile del 1936, e quindi per più di sette lunghi mesi, vale a dire per circa duecentoventi giorni, pochissimi aerei provenienti dall’estero erano atterrati a Kjeller. In quasi sette mesi e mezzo, ossia dal 18 settembre del 1935 fino al 30 aprile del 1936, secondo Gulliksen solo pochissimi aerei atterrarono a Kjeller provenendo da stati stranieri e da aeroporti stranieri, e una di queste rare, solitarie “aquile del cielo” atterrò a Kjeller proprio nel dicembre del 1935, cioè in concomitanza temporale (su scala mensile, certo) con il presunto/reale volo di Pjatakov del dicembre del 1935.
Avvocato del diavolo: “Si può trattare solo di una coincidenza fortuita…”.
No, signor avvocato del diavolo: siamo in presenza di cinque “coincidenze fortuite”, non di una sola.
Prima “coincidenza fortuita”: durante il processo di Mosca del gennaio del 1937 Pjatakov dichiarò di essere atterrato in un aeroporto norvegese nella zona di Oslo, e guarda caso la struttura aeroportuale di Kjeller posta vicino alla capitale norvegese risultava funzionante nel dicembre del 1935, anche secondo il suo direttore T. Gulliksen.

Seconda “coincidenza fortuita”. Mentre Pjatakov sostenne di aver compiuto il suo volo segreto in Norvegia nel dicembre del 1935, partendo da Berlino e quindi da fuori dei confini norvegesi, “casualmente” e “in modo fortuito” atterrava a Kjeller l’unico aereo, il solo velivolo, l’unica “aquila solitaria” giunta in loco per tutto il mese di dicembre del 1935: quindi tale aereo proveniva sicuramente dall’estero, da fuori dei confini norvegesi (da Linköping, stando almeno alla versione di Gulliksen), e non certo da un altro aeroporto della nazione scandinava in esame.

Terza “coincidenza fortuita”. Partendo dal 18 settembre del 1935, e cioè il giorno prima dell’atterraggio a Kjeller dell’aereo inglese pilotato dal “signor Robertson”, ben pochi aerei giunsero all’aeroporto di Kjeller provenendo dall’estero prima del 30 aprile 1936, e quindi per circa duecentoventi giorni: e una di queste rarissime “aquile solitarie”, di questi pochi velivoli atterrò a Kjeller proprio nel dicembre 1935, ossia nel mese indicato da Pjatakov per il suo viaggio segreto in Norvegia.

Quarta “coincidenza fortuita”: dopo il dicembre del 1935, e dal primo gennaio 1936 al 30 aprile del 1936, secondo la stessa versione di Gulliksen e “in accordo con le registrazioni tenute all’aeroporto” non atterrò a Kjeller alcun aereo straniero, confermando ulteriormente il carattere eccezionale e anomalo del volo partito da “Linköping” – stando sempre alla versione di Gulliksen – e sicuramente arrivato a Kjeller da fuori dei confini norvegesi nel dicembre del 1935.

Quinta “coincidenza fortuita”. Il misterioso aereo in esame atterrò provenendo dall’estero all’aeroporto di Kjeller, località che guarda caso dista solo cinquanta chilometri in linea d’aria da Honefoss, ossia dalla cittadina della Norvegia meridionale nella quale indubbiamente risiedeva Trotskij nel dicembre del 1935: in pratica solo cinquanta chilometri, e non cinquecento o mille, separavano Kjeller da Honefoss e dalla zona nella quale era allora collocato Trotskij.

Una sola “coincidenza fortuita” può forse essere accettata rispetto a un determinato evento, ma cinque “coincidenze fortuite”, cinque “casualità” sullo stesso fatto-volo risultano come minimo molto sospette, anche se considerate isolatamente e senza altri elementi sicuri di prova. Secondo il principio individuato dal criminologo francese E. Locard, quando una persona nell’ambito di un crimine entra in contatto con un’altra persona o un oggetto (= l’aeroporto di Kjeller, nel caso specifico), lascia sempre delle tracce sull’oggetto del suo delitto: una traccia come quella ad esempio lasciata dal misterioso e solitario velivolo atterrato a Kjeller nel dicembre del 1935, provenendo sicuramente dall’estero.
La tesi delle “cinque coincidenze fortuite” sullo stesso evento-volo si rivela subito insostenibile e indifendibile: l’aereo giunto a Kjeller dall’estero nel dicembre del 1935 risalta ed emerge infatti come una grossa macchia di inchiostro nero schizzata su un foglio bianco, anche perché la combinazione di presunte casualità in via d’esame deriva inevitabilmente dalle dichiarazioni rese da un testimone antistalinista, oltre che – come vedremo tra poco – come minimo molto reticente.
Avvocato del diavolo: “D’accordo, un aereo è arrivato dall’estero a Kjeller nel dicembre del 1935. Ma in ogni caso tale velivolo norvegese non arrivava da Berlino ma viceversa dalla città svedese di Linköping, e inoltre non aveva a bordo passeggeri: non avete quindi provato niente di importante”.
Ormai caduta e crollata per sempre la tesi sull’impossibilità materiale del volo di Pjatakov, alla “seconda versione” rimane solo la parola del militare norvegese T. Gulliksen per poter affermare che l’aereo realmente arrivato dall’estero a Kjeller, nel dicembre del 1935, provenisse proprio da Linköping, fosse di nazionalità norvegese e che esso inoltre non avesse a bordo alcun passeggero, come ad esempio un certo signor Pjatakov.

Stiamo quindi affrontando un problema molto diverso da quello affrontato in precedenza, dovendo a questo punto “solo” verificare se si può prestare fede alle affermazioni e alla tesi di Gulliksen sul fatto che l’aereo in esame fosse norvegese e provenisse da Linköping, e non invece da Berlino, non avendo poi a bordo alcun passeggero: a questo proposito risulta relativamente facile dimostrare che Gulliksen mentì in modo abile su questi nodi ed elementi decisivi, utilizzando a tal fine proprio una fonte insospettabile per la “seconda versione”, e cioè lo stesso Gulliksen.

Paleontologia, zoologia e anticolonialismo: la storia del dodo

REDAZIONE NOICOMUNISTI

DI LUCA BALDELLI


Tra i tanti misfatti perpetrati dal colonialismo, in quanto rapina e saccheggio di risorse naturali ed ambientali, annichilimento sistematico, su vasta scala, di esseri viventi, vi è una vicenda poco nota al vasto pubblico, che solo alcuni studiosi e cultori di zoologia, paleontologia e scienze affini conoscono o perlomeno hanno sentito descrivere per sommi capi: parliamo della storia del Dodo, il volatile ormai scomparso da quattro secoli e descritto, nell’ambito della letteratura scientifica, con la denominazione di Raphus cucullatus, coniata dal grande Linneo nel 1758.

Dodo di Roelant Savary
Il Dodo apparteneva alla famiglia Columbidae, comprendente oltre trecento specie, a dilettar con variegata fenomenologia di esemplari il ventaglio della Natura. Una sorta di piccione ipertrofico, col becco adunco e potente, la testa glabra, allampanata corona trionfante su una regale livrea di piume, le zampe corte richiamanti nella loro guisa quelle del pollo. Un volatile di 75 centimetri circa di altezza per oltre 20 chilogrammi di peso (anche se l’analisi delle ossa spinge alcuni studiosi a quantificare il peso in una forbice compresa tra 9 e 18 chilogrammi). La sua presenza era particolarmente diffusa nell’Isola di Mauritius, dove, si pensa, era approdato provenendo dall'Asia meridionale. Alcuni resti fossili inducono a ritenere che il suo più vicino progenitore fosse un volatile di 35 centimetri, frugivoro (ovvero, che si cibava di frutta) e capace di volare (a differenza del suo discendente). L’insediamento nell'Isola Mauritius fu favorito dal clima mite, oltremodo accogliente, dalla quasi totale assenza di predatori, dall'abbondanza di risorse alimentari disponibili. Il Dodo si nutriva di crostacei, semi, bacche, foglie e forse frutti, che triturava sfruttando il becco acuminato.

Dodo di Ustad Mansur, museo dell'Ermitage, Leningrado
Secondo quanto si è potuto ricostruire muovendo i passi in quell’amalgama virtuoso di prove concrete, intuito e induzione che caratterizza il brodo di coltura del paleontologo, l’ampia e diversificata disponibilità di cibo a terra, provocò, negli esemplari di Dodo, l’ottundimento di ogni stimolo a ricercare fonti di nutrimento compiendo sforzi. A causa di tale pigrizia, instillata dal vantaggio di non doversi sperticare per la sopravvivenza nello strabiliante palcoscenico di foreste e macchie insulari, nel Dodo le ali, ed in modo specifico le penne timoniere, presto si atrofizzarono, come pleonastici ammennicoli adagiati su un inerte pigostilo. L’uccello, di conseguenza, acquisì quella sua andatura impacciata, quasi claudicante, che gli valse, immeritatamente, per una perversa adequatio rei a discutibilissimi schemi mentali umani, l’infamante nomignolo (Dodo, appunto) ad esso affibbiato dai colonialisti portoghesi. Dodo, infatti, è una derivazione di "doudo" o, in portoghese moderno, "doido", che sta per tonto, sempliciotto, preda facile. Ecco, in questo appellativo lusitano c’è già tutta l’arroganza, la crudeltà, la ferocia e la stupidità (essa sì reale, non come quella del Dodo!) di quei predoni votati alla razzia, armati di archibugi, cannoni e croci, che la storia ha definito "colonialisti ". Essi, e non altri, resero il Dodo una preda ambita e agevole da riporre nel carniere. I Portoghesi giunsero nell’Oceano Indiano doppiando il Capo di Buona Speranza nel 1488, grazie all’intraprendente Bartolomeo Diaz; compulsando antiche carte ingiallite, manovrando febbrilmente sestanti e bussole, astrolabi e notturlabi, essi si spinsero, nel 1507, fino alle Isole oggi chiamate, tutte comprese in una sola entità, Mauritius. E sì, perché questo era, in realtà, nel ‘600, il nome della sola isola principale dell’Arcipelago delle Isole Mascarene, traenti il loro nome dal Capitano portoghese Pedro de Mascarenhas, che per primo vi arrivò col suo stuolo di baldi e ribaldi. L’isola principale, già nota agli Arabi con il leggiadro nome di "Dina Arobi" (Amore dell’Arabia), venne ribattezzata dai Lusitani "Ilha Do Cerne" (Isola del Cigno). Un’allusione al Dodo, scambiato per l’animale il cui bel canto è un inno alla sua prossima dipartita? Questo non si sa, ma, di certo, sappiamo che essi trovarono un ambiente pressoché intonso che iniziarono a depredare e sconvolgere, danneggiando un habitat che, per millenni, aveva prosperato rigoglioso e lussureggiante come pochi altri. Mark Twain, nel suo diario di viaggio dal titolo Seguendo l’Equatore, scriverà:

"Sembra che sia stata creata prima Mauritius, poi il Paradiso, e che il Paradiso sia stato creato da Mauritius"

I Portoghesi (che mai costruirono sull'isola insediamenti stabili) furono dunque i primi a venire a contatto col Dodo e, come abbiamo visto, a battezzarlo con questo nome tutt'altro che generoso e veritiero. La mattanza del volatile cominciò allora, ma a dar via al massacro su vasta scala, senza riguardo per limiti e scrupoli, furono gli Olandesi, insediatisi nel 1598 sotto la guida del marinaio e avventuriero Wybrand van Warwjick: proprio costoro dettero all'isola più importante, considerata un corpo unico con quelle attualmente denominate Saint Brandon e Rodrigues e Agalega, il nome di Mauritius, in onore del Principe Maurizio di Nassau. Gli Olandesi, più dei Portoghesi, introdussero, in modo particolare a Mauritius, gatti, cani, maiali, ratti e roditori, decretando la fine del Dodo. Il volatile non è solo nella triste antologia delle estinzioni colpose, causate dai colonialisti nell'area delle Mauritius: accanto ad esso possiamo annoverare la Tartaruga gigante e, in ambito botanico, l’Ebano, abbattuto senza pietà per l’effimero diletto degli arredi di lusso delizianti la cupidigia dei ricchi europei.

Il dodo ritratto da Cornelis Saftleven
Il tutto, naturalmente, mentre il turpe commercio degli schiavi veniva in ogni modo praticato ed incentivato, e mentre si estendevano a perdita d’occhio le piantagioni di zucchero, introdotte dal governatore Adriaan Van Der Stel e concimate col sangue e col sudore delle popolazioni schiavizzate, sfruttate, derubate di tutto. Il Dodo, come milioni di esseri umani, fu vittima innocente ed indifesa di questi banditi, ladri e masnadieri che si facevano scudo con ricchezze immense accumulate con prepotenze e crimini, nonché con franchigie morali assurde, accampate ed imposte in virtù di protezioni in alto, altissimo loco, nei palazzi del potere di quel Vecchio Continente lanciato alla conquista del mondo per brama inestinguibile di averi.

Illustrazione allegorica della Compagnia delle Indie (1646)
Non si può dire nemmeno che fosse commestibile, il Ruphus cucullatus alias Dodo: i Portoghesi ci hanno lasciato alcune testimonianze circa il gusto non proprio sopraffino delle sue carni, mentre gli Olandesi, in maniera ancor più netta, sprezzante e drastica, lo chiamarono "Walgvogel", ovvero "uccello disgustoso". Accadde anche che i colonialisti (poverini!) si scandalizzarono per reazioni del tutto episodiche e insignificanti, quantunque perfettamente legittime e giuste, di esemplari di Dodo alle loro volontà genocide: Pieter Willemsz Verhoeff, navigatore giunto a Mauritius, ebbe a lamentarsi per la beccata di un Dodo che stava cacciando. Questo, mentre i membri del suo equipaggio si davano alla pazza gioia macellando una quantità impressionante di volatili, in un olocausto ornitologico che non avrà mai, di certo, la sua Norimberga. Un rapporto del 1602, redatto dall'equipaggio della nave Gelderland, in forza alla Compagnia delle Indie, reca scritto:

“Questi uccelli vengono catturati a Mauritius in gran numero poiché non volano e mangiano o si rinfrescano nell'acqua".

Una vigliaccheria immensa, uccidere volatili mentre adempiono alle loro funzioni vitali, approfittando della loro goffaggine e della loro natura pacifica! Una vergogna che rappresenta uno dei tanti grani avvelenati del rosario colonialista, della sua furia sterminatrice verso animali e uomini. Alla fine del ‘600, il Dodo fu estinto del tutto sì, FU ESTINTO, perché continuare a scrivere "si estinse", come va per la maggiore nelle pubblicazioni scientifiche, significa essere complici di un crimine e coprire ciò che avvenne realmente con la coltre ipocrita dell’ineluttabilità e di una presunta legge di natura ineluttabile che, se fosse stata davvero operante e giusta, avrebbe fatto olocausto dei colonialisti, non del Dodo.


Oggi questo volatile, divenuto oggetto di ornamento nei secoli passati con le sue penne e le sue piume, è un esotico richiamo presente nella bandiera delle Isole Mauritius, nonché in alcune opere letterarie, da  Il diario di Adamo e di Eva  di Mark Twain ad Alice nel Paese delle Meraviglie  di Lewis Carroll. Resta, malinconico e forse un po' cinico, il canto poetico di Hilaire Belloc:

The Dodo used to walk around,
And take the sun and air.
The sun yet warms his native ground -
The Dodo is not there!

The voice which used to squawk and squeak
Is now forever dumb
Yet may you see his bones and beak
All in the Mu-se-um.

Il Dodo era solito andare in giro,
E prendere il sole e l'aria.
Il sole brilla ancora sul suo terreno natio -
Il Dodo non c'è più!

La voce che era solita starnazzare e squittire,
È ora per sempre muta -
Ma puoi vedere ancora il suo scheletro ed il suo becco,
Tutti nel mu-se-o.