giovedì 24 agosto 2017

Liu Xiao Bo dietro il velo della propaganda

REDAZIONE NOICOMUNISTI

Di LUCA BALDELLI

Il Solgenitsin cinese, Liu Xiao Bo


Da prima della sua prematura dipartita, i media occidentali hanno deciso di santificare, fino a farlo assurgere ad una sorta di Giordano Bruno in salsa asiatica, il "dissidente" cinese Liu Xiaobo. La triste, cinica ed ipocrita abitudine italica (e non solo) di santificare tutti post – mortem, in questo caso è stata ampiamente preceduta da un battage mediatico precedente al luttuoso evento; una campagna aggressiva, mendace e reticente che continua ad inquinare pesantemente la verità storica e i fatti oggettivi. 

Chi era nel dettaglio Liu Xiaobo, questa "vittima del crudele regime cinese", secondo la stampa dell’unico regime veramente tale, ovvero quello capitalista – borghese? Il suo nome, degradato a ritornello e scioglilingua da mettere in bocca a tanti stolti e disinformati che pullulano nel panorama sociale odierno, può essere annoverato tra quello delle grandi figure storiche o si tratta, semplicemente, di un mito di cartapesta pompato per le esigenze della moderna guerra fredda? 
Manifestazione a Londra per la sua liberazione


Liu Xiaobo nasce nel 1955 a Changchun, nella Provincia nord – orientale di Jilin. Fin da questo momento, occorre sgomberare il campo da una prima notizia falsa circolante con insistenza, ovvero quella per la quale Liu sarebbe stato educato alla religione cristiana. Egli nacque, viceversa, in una famiglia di intellettuali fieramente marxisti – leninisti e atei: il padre, Liu Ling (1931  - 2011), docente di Cinese all’Università Normale del Nord Est (NENO), istituto fondato dal Partito Comunista Cinese nel 1946, fu convinto militante del PCC, mentre la madre, Zhang Suqin, lavorò nella medesima Università e mai si allontanò dalla sua visione del mondo, in tutto e per tutto coincidente con quella del suo consorte. I fratelli di Liu Xiaobo sono stati o sono tutti alti dirigenti del settore economico e culturale. Lungi dall’essere un emarginato, un reietto, dunque, Liu Xiaobo è nato e cresciuto all’interno di una famiglia colta, discretamente benestante, il cui avanzamento sociale è stato garantito in tutto e per tutto dai principi del socialismo, dalle enormi possibilità messe in campo dall’ordinamento sociale cinese a beneficio di tutti, senza discriminazione alcuna. Anche Liu non ha fatto eccezione, affermandosi fin da giovane in ambito accademico: ammesso nel 1977 al Dipartimento di letteratura cinese dell’Università di Jilin, vi fonda il gruppo di poeti denominato "I cuori innocenti" (Chi Zi Xin) e si laurea nel 1982. Nel 1984 diviene docente a Pechino e sposa Tao Li, dalla quale ha un figlio, di nome Liu Tao. Si paragoni il destino di questo "dissidente", sin dai primi anni di approccio con il mondo del lavoro, con quello di tanti giovani precari di oggi nel nostro emisfero, i quali escono dalle Università con lauree svilite nel loro valore fin dall’iter formativo che porta a conseguirle e, di fatto, inutilizzabili viste le dinamiche del sistema economico.  Ad ogni buon conto, all’attività di docente, Liu Xiaobo unisce quella di pubblicista, con articoli imperniati su tematiche letterarie. Ben presto, però, alla viva e romantica passione per la letteratura subentra una verve da polemista arrabbiato, venata da punte di frustrazione evidenti. La società cinese, il Governo, il Partito, non sono certo disabituati alla polemica, anche la più accesa, ed alla critica, anche la più radicale, né le ostracizzano con ipocrisie censorie ridicole e controproducenti; semmai, vi è da rilevare come, dal 1966 almeno, la massima libertà di espressione sia un dato di fatto evidente, a volte anche eccessivo e debordante (chiunque conosca un po' il mondo dei tazebao avrà perfetta contezza di tale aspetto). Il punto è che la critica, o meglio la vis polemica scagliata nell’arena culturale e politica da Liu Xiaobo, non riguarda disfunzioni, difetti o deviazioni del sistema socialista, ma investe direttamente, con violenza verbale deplorevole e inaccettabili toni offensivi, il popolo cinese stesso, la sua storia, la sua identità, la sua cultura. 

Esso viene definito, senza mezzi termini, "fisicamente e psicologicamente impotente! 

Nessun Paese potrebbe tollerare a lungo un affronto simile, infamante e del tutto gratuito, contro la propria storia e contro la propria gente. Eppure, nonostante l’invito di una parte del PCC a prendere le dovute misure verso Liu Xiaobo, prevale in seno alle autorità un atteggiamento pseudo – liberale di debolezza e di resa che, lungi dall’indurre il "giovane arrabbiato" a più miti consigli, lo inciterà ad ulteriori staffilate. Nella Cina "tirannica", dove la censura, a detta dei favolisti, sarebbe onnipresente, Liu Xiaobo non solo lascia, ma raddoppia: è del 1988 il libro Xuanze De Pipan: Yu Li Zehou Duihua (Il criticismo delle scelte: un dialogo con Li Zehou), edito dalla Shangai renmin chubanshe. L’opera è un attacco violento non solo al socialismo, ma a tutta la cultura tradizionale cinese, al confucianesimo in primis; la scelta dell’interlocutore non è dettata certo da casualità: Li Zehou è, infatti, un noto intellettuale filo – occidentale, che approfitta del clima di libertà fiorito a partire dagli anni ’60, grazie a Mao Tse Tung ed alla sua passione per il confronto aperto e senza veli, per compiere le sue incursioni verbali di esaltazione di tutto quanto fa parte dell’occidente e di denigrazione violenta di tutto ciò che il popolo cinese ha partorito nella sua millenaria storia. Non a caso sarà sobillatore degli studenti a Piazza Tien An Men e, dal 1991, deciderà di trasferirsi negli Usa. Anche nel caso di questo libro, nessun segnale da parte del PCC e del Governo: il libello/ trattato diventa altresì un'ariete editoriale. Ciò non vuol dire che l’opinione pubblica parteggi per le tesi che vi sono esposte: tutt'altro, è la curiosità che spinge all'acquisto, seguita subito dall'esecrazione per il contenuto presso la stragrande maggioranza dei lettori. Sempre nel 1988, a dispetto di queste uscite a gamba tesa verso il suo popolo, prima ancora che verso le legittime autorità, Liu Xiaobo supera brillantemente l’esame per la tesi di dottorato (con verdetto unanimemente favorevole da parte del collegio esaminatore) e pubblica la propria tesi in forma di libro, sotto il titolo Libertà estetica e umana. Il Partito, il Governo, il mondo accademico nel suo complesso, sono talmente oppressivi e ostili a Liu che non solo gli permettono di spargere i suoi veleni contro la sua gente in maniera del tutto pacifica e indisturbata, ma gli consentono pure di recarsi negli Usa ad insegnare nelle Università più prestigiose. L’occidente è, per Liu, un faro, l’esempio da seguire per far cambiar pelle alla Cina e ai cinesi: 

"... modernizzazione – afferma nel 1988 il "dissidente" in un’intervista a Liberation Monthly di Hong Kong – significa in blocco occidentalizzazione; scegliere un’esistenza umana, significa scegliere il modo di vita occidentale. La differenza tra il sistema di governo occidentale e quello cinese è la stessa differenza che passa tra l’umano ed il non umano, non c’è via di mezzo... l’occidentalizzazione non è la scelta di una Nazione, ma una scelta per la razza umana". 

Nemmeno Fukuyama è arrivato forse a tanto! Il razzismo, l’esclusivismo, il fondamentalismo occidentalista trovano in Liu Xiaobo un campione indiscusso. In ballo non ci sono solo il socialismo, ma ancora una volta Confucio, Mencio, Sun Tzu e tutti o quasi i grandi pensatori della tradizione cinese, tutti bollati, esplicitamente o implicitamente come capisaldi teoretici della tirannia, del dispotismo, di tutto ciò che può essere additato come negativo. E’ chiara dunque anche l’aderenza oggettiva di Liu all’elaborazione del filone dello "scontro di civiltà", che in Huntington troverà, qualche anno dopo, la prima sistemazione teorico – speculativa coerente e dettagliata. Il pronunciamento di Liu Xiaobo sul colonialismo, taglia, se ve ne fosse ancora necessità, la testa al toro rispetto alla sua collocazione ideologico – valoriale: 

"In 100 anni, Hong Kong è cambiato fino a diventare ciò che vediamo oggi. Con la Cina, essendo il Paese così grande, occorrerebbero 300 anni di colonialismo, per poterla trasformare in ciò che oggi è Hong Kong. Ho i miei dubbi – anzi – sul fatto che 300 anni siano sufficienti". 
Disordini ad Hong Kong
 (nota del redattore: sui disordini di Hong Kong vedasi La Rivoluzione degli ombrelli, parte I e parte II)

Un razzismo che trasuda da ogni riga, nel contesto di una deplorevole esaltazione del colonialismo che tanto male ha arrecato alla Cina, nel suo tentativo di farne, nel corso dei secoli, una docile riserva di materie prime e mano d’opera, con contestuale corruzione e uccisione morale ed intellettuale delle migliori energie umane, anche attraverso lo smercio massiccio dell’oppio. Un affronto, un insulto intollerabile contro il proprio popolo, reiterato con virulenza e sfacciataggine. Più tardi, con la più sgradevole delle ipocrisie, Liu Xiaobo definirà "estemporanea" questa sua apologia del colonialismo ma, allo stesso tempo, manifestando ancora una volta il proprio credo, si rifiuterà di ritrattarla, confermandola. Peggio la toppa del buco, direbbe qualche vecchio, smaliziato saggio. Incarcerato dal giugno del 1989 per il suo ruolo di istigazione e sobillazione ideologica durante i fatti di Tien An Men, Liu Xiaobo viene liberato nel 1991: il "satanico" e "tremendo" potere cinese, pur condannandolo per "propaganda e incitamento controrivoluzionario", lo solleva da altri reati penali in virtù dell’ "azione meritoria" esercitata da Liu per impedire scontri sanguinosi, in quella che non era stata una "fioritura di libertà", ma un tentativo golpista finalizzato alla disgregazione della Cina, come apertamente dichiarato e sostenuto non da Deng Xiaoping, ma dallo studioso statunitense di problemi strategici Arthur Waldron in un saggio volutamente "dimenticato" dai media al servizio dell’imperialismo: After Deng The Deluge, comparso su Foreign Affairs nel 1995. 

La famosa immagine simbolo di Tien An Men con cui per decenni la propaganda occidentale ci ha fracassato gli zebedei


La giustizia cinese, ancora una volta, si manifesta, a dispetto di quanto ha sempre sostenuto e sostiene la disinformatia occidentale, rigorosa ed equilibrata, sempre scrupolosa nell'esame delle responsabilità oggettive degli imputati. Nemmeno questo trattamento così umano induce Liu Xiaobo a correggere il tiro, non delle sue opinioni (in Cina la libertà di opinione è tutelata e protetta), ma delle sue offese e ingiurie contro il popolo e la sua storia, contro il socialismo e la plurimillenaria civiltà cinese. Egli persiste nei suoi attacchi e anzi li rende più virulenti, utilizzando come base Taiwan, dove nel ’92 pubblica Monologhi di un sopravvissuto dal giorno del giudizio, un racconto a dir poco fazioso delle sue vicende e vicissitudini, strumentalizzato subito dai circoli imperialisti e dai nazionalisti fanatici ed aggressivi di Taipei. 



Nel gennaio del 1993, Liu Xiaobo torna in Cina: nessuno ne vieta l’ingresso nel Paese, e questa è un’altra prova della tolleranza e benevolenza delle autorità, ricompensate ancora una volta con bordate senza esclusione di colpi dal "dissidente" beniamino dei circoli più aggressivi dell’imperialismo. L’escalation degli strali è talmente insistente e provocatorio che, nel ’95, Liu viene sottoposto a misure di sorveglianza a Pechino. Liberato da ogni costrizione nel febbraio del 1996, ad ottobre dello stesso anno viene di nuovo arrestato e, questa volta, davanti alla sua pervicacia nell'opera di destabilizzazione del socialismo, inviato in un campo di lavoro correzionale. Ben poca correzione viene esercitata sulla mente del "dissidente", se, scontata la condanna, a partire dal 2001 torna a svolgere la sua attività contro l’ordinamento cinese, a favore dell’imperialismo e dei circoli più guerrafondai all'opera. Non solo Liu pubblica due libri negli Usa dai titoli inequivocabili (Il futuro della Cina è nella società civile e La singola lama di una spada velenosa: il nazionalismo cinese, quest’ultimo del 2006 ), ma esprime pieno appoggio, in palese violazione del dettato costituzionale cinese, ed in spregio agli interessi del suo Paese, a tutte le guerre imperialiste promosse dal clan Bush, dall’Afghanistan all’Irak. Non solo : Liu arriva anche ad intromettersi negli affari interni degli Usa in occasione delle elezioni presidenziali del 2004, scagliandosi contro Kerry per la sua asserita debolezza sul conflitto mediorientale. Insomma, un Liu più realista del Re che lo ha incoronato come Proconsole intellettuale della futura Cina asservita all’imperialismo, mai svanita dall’orizzonte dei sogni occidentali. Nel 2008, un salto ulteriore di qualità; Liu Xiaobo è tra gli estensori della "Carta 08", un documento che fa appello a tutti i cinesi e chiede lo smantellamento del socialismo, con la privatizzazione delle industrie, il ritorno delle terre in mano ai proprietari, una "libertà" di espressione che non può che voler dire licenza dei ricchi e dei filo – capitalisti di dire quello che vogliono, mentre i comunisti ed i progressisti saranno ammutoliti e minacciati di querela, censura e prigione ogni volta che apriranno bocca. Il "dissidente" difenderà sempre questa sua scelta come dettata dalla "libertà di coscienza", sostenendo che le opinioni personali espresse non significano sovversione: dimenticherà di dire, Liu Xiaobo, che la Costituzione cinese, mentre garantisce a tutti i cittadini la libertà di opinione e di critica, punisce chi vuole sovvertire il socialismo auspicando, ed anzi sancendo tra gli obiettivi della propria azione politica, lo smantellamento della proprietà collettiva e la proprietà statale delle aziende strategiche. Dimenticherà di dire davanti al mondo, Liu Xiaobo, che un appello che chiama a raccolta i cittadini non è una vaga e generica professione di idee ed opzioni, ma un programma dal quale non può che discendere un’azione politica logica e conseguente, la quale, nella misura in cui contrasta con la legge, non può essere ammessa. Tanto per portare un esempio, in Italia, Paese nel quale vi è fin troppa tolleranza vi è nei riguardi dei movimenti di estrema destra, nessuno può, almeno in linea di principio ed in forza di legge, firmare appelli per la ricostituzione del regime fascista, né tantomeno chiamare a raccolta il popolo per ottenere con l’azione diretta la realizzazione di quell’obiettivo. Alla luce della condotta del "dissidente", nel 2009 il Tribunale intermedio n. 1 di Pechino (una specie di Corte d’Appello), si pronuncia sul caso: ancora una volta, la giustizia cinese si manifesta obiettiva, onesta, trasparente, non viziata da pregiudizio. Al dibattimento, Liu Xiaobo è assistito da due validi avvocati, Shang Baojun e Ding Xikui, i quali venti giorni prima hanno avuto in mano la tesi accusatoria (un tempo congruo in Cina, vista la laconicità e chiarezza dei documenti giudiziari, ben lontani dai fiumi di parole che inondano atti simili in Italia). La stampa e la televisione sono presenti, assieme ai parenti e a persone vicine al "dissidente"; viene negato l’accesso unicamente ai diplomatici di Usa, Gran Bretagna, Canada, Svezia e Australia, in quanto la loro presenza sarebbe ingiustificata, configurandosi anzi come aperta ingerenza e occasione di sobillazione contro un Paese ed un governo verso il quale i Paesi da loro rappresentati si sono sempre comportati con atteggiamento prevenuto, quando non ostile. Al termine del processo, che non ha le lungaggini e le pastoie riscontrabili nella situazione italiana, e che vede il pronunciamento finale del Tribunale intermedio n. 2 di Pechino, con un successivo grado di giudizio volto a tutelare l’imputato, chiarendo meglio i fatti e confrontando i pareri dei collegi giudicanti, Liu viene condannato a 11 anni di carcere e a 2 anni di privazione dei diritti politici per "incitamento alla sovversione del potere statale". Solo la marcia propaganda dell’occidente capitalista, schierato a difesa della sovversione anticinese, a Pechino come nello Xinijang, poteva raffigurare Liu come un martire e il verdetto dei Tribunali cinesi come un verdetto barbaro e infondato! Alle rimostranze dei tromboni occidentali della "giustizia giusta" (che si invoca sempre a protezione dei potenti e dei loro scherani, mai a difesa dei proletari e dei diseredati!), il Professor Gao Mingxuan, stimato docente di diritto penale, e il Ministro degli Esteri cinese Yang Jiechi, rispondono per le rime, citando inoppugnabili pietre miliari della giurisprudenza "democratico – borghese": in primis, nessun Paese – essi ricordano – può impunemente ammettere che un cittadino lanci appelli per rovesciare il legittimo governo e gli ordinamenti che quel Paese liberamente si è dato; in secundis, proprio testi "sacri" quali il Codice delle leggi degli Usa e la Legge 1351 della Gran Bretagna (il "Treason Act"), elaborata nel XIV secolo, ma in vigore ancora ai nostri tempi, tanto da essere utilizzata come strumento per la condanna del collaborazionista filo – nazista William Joyce, puniscono l’alto tradimento della Nazione, esplicitato in affermazioni, atti e opzioni volti a colpire le sue massime figure e a intessere relazioni con i suoi nemici a fini sediziosi. I collegamenti di Liu Xiaobo con ambienti reazionari e filo – imperialisti, sono stati chiaramente summenzionati, illustrati e sviscerati, così come l’azione eversiva del personaggio in ordine all'ordinamento sociale della Nazione cinese. Suscita semmai perplessità l’eccessivo liberalismo dello Stato cinese, che ha impiegato davvero troppo tempo per colpire adeguatamente un nemico tanto insidioso e fervente nelle sue attività, ma questa è una valutazione storica che non intacca il quadro d’insieme, anzi lo conferma. Nel 2010, l’acme dell’ipocrisia occidentale: a Liu Xiaobo viene simbolicamente consegnato il Premio Nobel per la Pace. Basta ricordare che una tale onorificenza è stata ottenuta anche da Obama, per inquadrare, alla luce dei fatti concreti, il suo valore, il suo prestigio e la serietà di chi ne gestisce e decide anno per anno le assegnazioni. Il nome di Liu Xiaobo risuona nella cassa armonica dell’addomesticatissima "informazione" di regime del mondo capitalista: ogni volta è classificato come vittima dell’oscurantismo e degli intrighi del "perfido" governo cinese; ogni volta si santifica la sua figura senza mai entrare nel merito di quel che ha detto, fatto e scritto veramente, al di là della cortina fumogena della retorica dirittumanista. Nel 2017, dopo sette anni di detenzione, a Liu Xiaobo viene diagnosticato un male che non perdona: un cancro al fegato in stato avanzato. Ancora una volta, il feroce ed inumano regime dei trinariciuti comunisti, compie un gesto di umanità destabilizzante solo per chi crede veramente alla propaganda anticinese: mette a disposizione del "dissidente" le migliori cure disponibili, nonostante la situazione sia disperata e senza scampo. La meraviglia aleggia tra le schiere dei disinformati ingenui senza speranza; il silenzio serpeggia tra le lingue malevole e spregevoli dei disinformatori, che non possono dar conto di questa realtà, perché andrebbe a prosciugare tutto il veleno che hanno sparso contro la Cina. Quale scandalo e quale affronto, per chi non ha umanità né legge, il fatto che il governo cinese distingua tra la persona di Liu, la sua integrità fisica e salute da proteggere e salvare fino all’ultima possibilità, e la figura sociale e politica di Liu, da trattare secondo la legge vigente come nemico del socialismo. I propagandisti della borghesia non riescono a pensare, né tanto meno ad ammettere una volta che l’hanno ben compreso, che il sistema penitenziario cinese non è, come piacerebbe a loro che fosse, quello nazista, con i campi di sterminio quale tappa finale degli oppositori. Il Primo Ospedale dell’Università cinese di Medicina è teatro di sforzi disperati per salvare la vita a Liu Xiaobo; zittiamo subito anche gli sciacalli indegni di rispetto, che hanno parlato di una malattia generata dal carcere. Non solo il cancro non si trasmette in carcere, e questo è fin troppo chiaro, ma, nella biografia di Liu vi era stato un precedente eclatante: il padre era morto nel 2011 proprio per un cancro al fegato. La genetica ha le sue leggi, a volte crudelissime e ancora per molti versi intonse rispetto agli studi degli scienziati. Vengono anche invitati medici di altre Nazioni, per rendere più trasparente il quadro generale degli interventi e delle operazioni e qualcuno risponde all’appello. Coloro i quali vengono a Pechino e hanno modo di constatare de visu la situazione, emettono unanimemente un verdetto senza sbavature e ambiguità: il sistema sanitario occidentale, in questo caso, non può garantire cure migliori di quelle messe a disposizione dal sistema sanitario cinese. Pertanto, anche gli avvoltoi pronti a speculare su una mancata autorizzazione all’espatrio di Liu Xiaobo sono zittiti sul nascere; in verità, nemmeno si dovrebbe sprecare mezza parole con loro, visto che nelle condizioni in cui Liu viene a trovarsi al principio dell’estate del 2017, nemmeno è ipotizzabile uno spostamento fuori dal Paese. La situazione precipita verso il 10 di luglio e il 13 luglio del 2017 Liu Xiaobo passa a miglior vita. Chi lo ha santificato e lo santifica, sarà sordo ad ogni argomentazione volta a illuminare la sua condotta, recitando il mantra della propaganda anticinese e dimostrando di non rispettare, così, né una persona (utilizzata come "ariete" per bassi fini politici) né la sovranità di un intero Paese nei suoi affari interni. Chi, come noi, l’ha sempre considerato un nemico del popolo e del socialismo, ma lo ha sempre rispettato e lo rispetta come persona (specie davanti alla morte), non avrà problemi e timori a ricordarlo per quello che è stato veramente, oltre i veli e le distorsioni di una propaganda cinica e falsa. 

Riferimenti bibliografici e sitografici

N. B. per suffragare la bontà ed assoluta veridicità di quanto abbiamo scritto nello studio, utilizzeremo prevalentemente fonti "borghesi" al di sopra di ogni sospetto.






https://blog.boxun.com/hero/liuxb/217_1.shtml (in cinese, utile per capire la posizione di Liu sulla guerra in Irak) 




Arthur Waldron: After Deng the Deluge. In Foreign Affairs, settembre/ottobre 1995, p.149. 










martedì 15 agosto 2017

Gradangolo sulla Cina: la questione dei quadri tecnici e dei manager, il nodo dell'ambiente. Oltre le bugie dei media

REDAZIONE NOICOMUNISTI

Di LUCA BALDELLI

Emulare l'intelligenza, sulla via di una rivoluzione culturale e tecnologica (1958) 


Lo sviluppo della Cina moderna e contemporanea è uno dei capitoli più prodigiosi della civiltà contemporanea e del socialismo in un Paese che, dal 1949 ad oggi, è passato da nemmeno 500 milioni di abitanti a 1.400.000.000. Un Paese che, formato in gran parte da contadini, legati ad arcaici sistemi produttivi e vecchi rapporti feudali di sfruttamento, ha saputo elevarsi, grazie alla guida salda e intrepida di Mao e dei suoi successori, dalla preistoria alla più piena modernità e avanguardia scientifica e tecnologica. Il tutto, in un arco di tempo di soli 70 anni, periodo nel quale i Paesi occidentali, a cavallo tra l’800 e il ‘900, hanno solo saputo perpetuare il potere capitalistico – borghese, con lo sfruttamento della classe lavoratrice e appena qualche conquista fatta cadere dal tavolo della borghesia come le briciola della mensa del ricco Epulone. Sulla dinamica dello sviluppo cinese le campane più svariate hanno intonato le nenie più stantie, tanto che risulta oggi necessario, per il militante marxista – leninista, acquisire notizie e dati di primaria importanza per poter scrollare anche il proprio giudizio dalla polvere del decadentismo borghese, comunque camuffato, del disfattismo e delle facili stroncature improntate ad un’ortodossia apparente e, comunque, degna di miglior causa. Da più parti si sostiene che la Cina odierna nulla avrebbe a che spartire con quella edificata da Mao, tutta volontarismo, mobilitazione permanente delle masse, critica serrata al burocratismo come distorsione da eliminare. In particolare, si asserisce l’esistenza di un’eccessiva predominanza dell’economia privata, della proprietà privata dei mezzi di produzione, con conseguenze letali anche per la gestione delle risorse naturali nel loro complesso. Vediamo come stanno le cose convinti, come siamo, che la verità "vera" non stia né dalla parte dei detrattori né da quella degli apologeti. 

Il Presidente Mao Tse Tung e Chu En Lai

In primis, occorre comprendere con nettezza e adamantina onestà intellettuale come si è evoluto il Partito Comunista Cinese, eroica avanguardia combattente forgiata dalla lotta contro i "signori della guerra", i tiranni, i feudatari, i proconsoli degli imperialisti presenti e predominanti nella vecchia Cina: questo enorme serbatoio di uomini, intelligenze, capacità, arditismo è passato da 1.200.000 militanti (tanti ne contava nel 1945) a 89.000.000 nel 2016. Esso è quindi diventato, con tutte le potenzialità e tutti i rischi del caso, un Partito di massa negli anni dell’edificazione del socialismo. Il dato, però, non ci parla solo di una crescita puramente e freddamente numerica, compulsabile e rendicontabile nell’ambito della più fredda ragioneria burocratica: no, esso vive e pulsa nell’evoluzione storico – economica della società cinese, della sua trasformazione, nel mutare dei rapporti di classe e di produzione, nell’affinamento continuo, pervicace e sistematico, della formazione di una classe dirigente all’altezza delle sfide poste da un mondo sempre più complesso, multiforme, ridisegnato nella sfere di influenza e nelle aree economiche e geopolitiche sensibili dalle dinamiche e dai rivolgimenti degli ultimi trent’anni. Passiamo dunque ai raggi x quella grande avanguardia che è il Partito Comunista Cinese: 88.760.000 militanti nel 2016, un planisfero organigrammatico costellato di sezioni e di "cellule" in ogni articolazione economica, politica e sociale dell’immenso Stato cinese. Dal punto di vista della stratigrafia sociale, nel novero sono compresi: 26.000.000 di agricoltori, pastori e pescatori; 7.200.000 operai; 12.500.000 tecnici, professionisti e dirigenti. Come si può vedere, il vecchio PCC interamente operaio e contadino del periodo maoista pare essere tramontato definitivamente dall’orizzonte politico e storico. Quello che sarebbe un tremendo pericolo e una iattura per tutta la classe operaia mondiale è, però, null’altro che una conclusione troppo affrettata: infatti, grazie al socialismo, in Cina è cresciuto a livelli esponenziali il benessere delle masse popolari e, come premessa fondamentale e imprescindibile di questo cammino in avanti, è cresciuto il livello di istruzione generale, con conseguente mutamento della stratificazione sociale. I tecnici, i dirigenti, gli specialisti sono cresciuti tanto nel numero assoluto quanto nel peso specifico, ovvero nella loro percentuale rispetto al resto della società, rispetto al ventaglio complessivo di professioni e lavori esistenti nel quadro della Cina socialista. Questo è, ad un tempo, un successo e un rischio: un successo, in quanto ci parla di un Paese proiettato ben oltre la ciotola al giorno di riso garantita a tutti (con abbondanza di contorni, sia detto per inciso) dal potere comunista dei primi anni, un pericolo in quanto lascia presagire o sottendere pericoli di imborghesimento dei quadri e di formazione di una nuova classe privilegiata, garantita nel proprio benessere da reviviscenze di rapporti sociali improntati a sfruttamento ed estrazione di plusvalore dal lavoro operaio. 

La vita felice che ci ha donato il Presidente Mao

Invero, nel 2001 Jiang Zemin, Segretario del PCC, spinse eccessivamente l’acceleratore nel suo discorso per l’ 80° anniversario della fondazione del Partito, presentando la "teoria della tre rappresentatività" la quale, oltre a valorizzare il ruolo di tecnici, scienziati ed esperti nel quadro militante, apriva la strada anche ad imprenditori privati e magnati dell’industria, sorti nel clima di prosperità creato dal socialismo. A tal proposito, occorre dire che, se il crollo del Comecon e del campo socialista tradizionalmente inteso (per quanto viziato e depotenziato dal revisionismo del post ’56), ha reso necessaria una proiezione della Cina in campo internazionale, sui mercati, pena un isolamento insostenibile dinanzi ad un unipolarismo americano tradottosi in semi – monopolio delle risorse naturali strategiche per lo sviluppo industriale e civile, è anche vero che l’eccessivo peso assunto dai ceti capitalistico – mercantili cresciuti all’ombra delle riforme di Deng ha significato e significa un rischio di involuzione in senso anti – socialista dell’ordinamento cinese e, dunque, un colpo mortale per l’umanità progressista, amante della pace e rivoluzionaria. Pertanto, mentre è stato indubbiamente giusto valorizzare i quadri tecnico – scientifici in seno al Partito, eccessivamente azzardato è stato l’altro passo, ossia quello di garantire agli imprenditori privati (altra cosa dai tecnici e dai quadri dirigenziali) uno spazio significativo in senso alle articolazioni del Partito e dello Stato. 

A questo punto, la domanda è un’altra: ha il PCC gli anticorpi necessari per correggere questa distorsione e riportare l’asse della politica attorno alle classi lavoratrici senza infingimenti e senza surrettizie espropriazioni di una necessaria ed insostituibile egemonia? 
E’ il PCC in grado di marcare le opportune e, anzi, soteriche differenze tra il magnate, il tycoon rosso cresciuto all’ombra dell’ottimismo economicista, il più delle volte desideroso di sostituirsi alla classe dirigente con i suoi pari, ed il piccolo imprenditore legato strettamente agli interessi della classe operaia? 

La posizione sostenuta con forza dal Presidente cinese Hu Jintao pare, su questo fronte, rassicurare, anche se non ha scosso con la dovuta radicalità, per il momento, gli assetti generali del Paese. Il Presidente ha più volte messo in guardia contro un’eccessiva espansione della sfera privata dell’economia ed ha, saggiamente, invitato alla più forte vigilanza contro la minaccia di rinascita di una nuova classe borghese restauratrice. In un Paese in cui il PIL è ancora in stragrande maggioranza generato dal settore pubblico, esso non è un abbaiare alla luna, ma un impedire che la situazione si capovolga nell’assuefazione della popolazione, con il passaggio dell’area privata imprenditoriale da complemento del rafforzamento di un socialismo minacciato dall’unipolarismo imperialista americano a sistema sociale sostitutivo di quello attuale, nato dal pensiero di Mao e dalla lotta cosciente di milioni di sfruttati. Questo richiamo ha sortito significative inversioni di rotta, che hanno il segno, inequivocabilmente, di una strenua difesa e di un rilancio delle conquiste del socialismo: rafforzamento della sanità gratuita e universale nelle campagne, estensione massiccia delle tutele e dei diritti nella sfera economica privata, protezione e bardatura, con l’ acciaio più temprato, delle prerogative e dell’egemonia del settore pubblico negli ambiti strategici dell’economia. 

Tutto ciò ha avuto un riflesso, poderoso e assai tangibile, anche nelle dinamiche interne al Partito Comunista Cinese: infatti, al XVIII Congresso, tenutosi nel novembre 2012, il 30% dei delegati è stato espresso e inviato dalle sezioni comuniste di villaggio, mentre la rappresentanza operaia è aumentata del 300% rispetto al precedente appuntamento congressuale. 

Tavolo della presidenza del XVIII Congresso

Intanto, nel settore privato i comitati di base del PCC sono passati dai 100.000 del 2001 ai 300.000 del 2011, coprendo tutte le 210.000 grandi aziende private del Paese e reclutando più di 3.500.000 membri del Partito. Questi dati mostrano che l’anima proletaria e "profonda" della Cina non solo non è morta in seno alla società, ove essa è ancora egemone, ma è ancora in grado di riorientare e correggere gli orientamenti di un Partito che ha traghettato un Paese dal feudalesimo al socialismo in un brevissimo arco di tempo, liberando energie creative inestimabili e slanci forieri di sviluppi inarrestabili. 

Organigramma del PCC dopo il XVIII Congresso

L’altro punto di vista che ci piace inquadrare è la questione del modello di sviluppo. Da più parti si sente affermare che la Cina sarebbe attanagliata da un modello inquinante, distruttivo, aggressivo, all’insegna della più cinica e noncurante dilapidazione delle risorse naturali. Le cose stanno così? Prima di entrare nel vivo della risposta, una considerazione di carattere generale si impone. Certamente, i problemi posti dal Protocollo di Kyoto, strumentali nel modo in cui essi vengono gestiti, rappresentano comunque un nodo ineludibile per qualsiasi strategia di crescita e sviluppo delle forze produttive. Un’economia fondata sullo spreco di risorse non rinnovabili e sempre più scarse, in nome del profitto o in nome di un fideismo sviluppista senza base e senza anima, non solo non è e non sarà mai sostenibile (quali che siano le valutazioni sulla scientificità o meno delle tesi riguardanti il riscaldamento atmosferico, certamente intrise di parzialità retoriche e di secondi fini), ma fin da ora minaccia di far scomparire letteralmente la razza umana dal Pianeta non tra secoli, ma al massimo tra qualche decennio. Si provi soltanto a pensare cosa comporterebbe la proprietà di un’auto per ogni cinese e... le conclusioni non tarderanno ad arrivare! A questo problema – è qui il nocciolo della questione – come risponde la classe dirigente della Cina socialista, col suo carico di responsabilità tutte, inevitabilmente, su vastissima scala? L’approccio del PCC pare essere di due tipi: difesa dei principi sanciti a Kyoto, impegno su scala globale per la creazione di un’economia sostenibile, anche con il supporto di imprese straniere (senza che mai venga meno la centralità progettuale e attuativa cinese) e, accanto a questo, fermo rifiuto delle coniugazione di questo tema secondo i modi e i tempi del morente capitalismo globale, fallito in ogni suo obiettivo e in ogni sua speranza di autoperpetuarsi all’infinito, forte di una inesistente ineluttabilità che neppure il più ingenuo dei positivisti potrebbe oggi formulare a cuor leggero. Il PCC e il vertice dello Stato cinese, in sintesi, vuole un nuovo assetto economico internazionale sostenibile ed eco – compatibile e lo vuole più di ogni altro, consapevole che da una rincorsa infinita allo sviluppo tradizionale alla Cina verrebbero solo guai sul piano interno e tensioni sul piano internazionale, con guerre per l’accaparramento delle sempre più scarse risorse disponibili di qui a qualche anno o, massimo, decennio. Assieme a ciò, la Cina socialista e popolare rifiuta in blocco, in maniera sacrosanta, ogni "contagio" degli untori dell’economia di speculazione, quella che ha distrutto l’assetto economico internazionale minandone l’anima, sostituendo alla produzione di beni e servizi la disperata maieutica del denaro virtuale, fluttuante, metastatizzato e metastatizzantesi in carcinomi monetari slegati da ogni riferimento all’economia reale, nonché da ogni legittima e salutare sovranità nazionale vincolante e prescrittiva. Una sostenibilità vera, quella invocata e perseguita dalla Cina popolare, ben radicata nell’economia concreta e rifuggente da quella di carta come dalla peste. Una sostenibilità che non è l’appello ipocrita, meschino e vile alla "virtuosità" da parte di un’ America del Nord che fino ad oggi ha devastato il Pianeta e oggi, dinanzi ad un avversario temibile e agguerrito, gioca al francescanesimo prospettando agli altri l’austerità per poi recarsi tutti i giorni a colazione, pranzo e cena da Pietro di Bernardone. 

Inquinamento atmosferico nella città di Harbin

Mentre alle nostre latitudini di discute interminabilmente di raccolta differenziata e di pannicelli caldi, in Cina si marcia speditamente verso un nuovo modello di sviluppo: già nel 2007 il Paese otteneva il 7% della sua produzione energetica totale da fonti rinnovabili (solare, eolico ecc...). Nel 2015, gli investimenti nelle energie rinnovabili sono aumentati del 17%, posizionando la Cina al primo posto nel mondo (100 GW di potenza installata), con particolare riguardo al fotovoltaico (quasi 50 GW, + 15,2 % rispetto al 2014; gli Usa vengono solo al 4° posto, con circa 25 GW). Il 50% degli impianti eolici realizzati nel mondo sono presenti in Cina: quasi 150 GW, con un +30,8 % rispetto al 2014, mentre gli Usa vengono al secondo posto, con circa 70/80 GW (+ 8,6 % rispetto al 2014). Solo nel 2009, le città cinesi hanno acquistato 13.000 veicoli elettrici, in previsione dell’allargamento del mercato privato delle automobili a 287.000.000 di esemplari nel 2030, fatto questo che dovrà per forza di cose essere improntato a sostenibilità, pena l’esaurimento delle risorse mondiali di petrolio in tempi rapidi.
 
Centrale termoelettrica

La disinformazione ci presenta il "milione di morti ogni anno per inquinamento" in Cina, registrati da un rapporto dell’OMS del 2016. Ebbene, ad onta della necessaria scientificità e del rigore richiesto come requisito minimo in questi studi, l’OMS, che pure ha sempre brillato per autonomia e indipendenza di giudizio, stavolta ha preso un enorme granchio: infatti, quel rapporto appare palesemente distorto e manipolato nelle cifre, forse anche per colpa di criteri di registrazione delle cause di morte che, scrupolosissimi in Cina, lo sono molto meno negli Usa (dove la sanità fa acqua da tutte le parti, anche nella rilevazione di certi dati) e in Europa (continente nel quale il welfare, pur robusto e figlio di una rispettabilissima tradizione socialdemocratica, è oggi sotto attacco e depotenziato). Infatti, mentre in quel rapporto il numero dei morti per cause legate all’inquinamento è fissato, per la Cina, a 1.000.000, quello degli Usa, della Germania e dell’Italia è astutamente (o inopinatamente) sottostimato: si parla, rispettivamente, per queste Nazioni capitaliste, di 40.000, 26.000 e 21.000 decessi. Soltanto 40.000 morti negli Usa, che dell’inquinamento sono stati storicamente, e sono ancora oggi, i principali responsabili! La prova del "taroccamento" (o quantomeno dell’assoluta imperizia nella raccolta dei dati da parte degli Stati nazionali, segnatamente quelli occidentali, desiderosi di evitare reprimende e sanzioni) appare evidente nel momento in cui si raffrontano i dati OMS con quelli di tutta una serie di autorevolissimi studi: l’Agenzia europea dell’ambiente (AEA), nel 2012, registrava 84.400 decessi prematuri in Italia e non si vede come essi, cinque anni dopo, possano essere diminuiti di quattro volte! Per quanto concerne gli Usa, i ricercatori del celeberrimo, storico MIT (Massachusetts Institute of Technology), in un loro studio del 2013 parlavano di ben 200.000 morti annui per cause legate all’inquinamento ambientale. In tutti gli studi sino ad ora svolti e consultabili, invece, il dato cinese è sempre lo stesso: 1.000.000 di morti o poco più, a testimoniare quanto i dati di Pechino siano precisi e trasparenti, tanto che nessuno ha potuto "correggerli". Non si tratta certo di assolvere la Cina per il suo ruolo (comunque reale) nell’inquinamento globale, sarebbe una posizione in malafede e pure ridicola; il problema è, invece, quello di riportare l’asse della discussione sul giusto binario: i decessi in rapporto alla popolazione (e in proporzione alla potenza dell’apparato produttivo complessivo) sono pressappoco della stessa entità in Cina, negli Usa, in Italia, anzi, forse la Cina, col suo miliardo e passa di abitanti e il suo gigantesco apparato industriale, in un parallelismo logico – critico, esce dall’esame meglio di tutti gli altri Paesi. 



La differenza fondamentale è che, mentre nei Paesi occidentali la recessione gioca un ruolo di "regolatore naturale" anche dei livelli delle emissioni in atmosfera e del consumo di risorse non rinnovabili (Paesi che producono sempre meno inquinano, ovviamente, sempre meno), nel caso della Cina abbiamo un Paese che, in piena, vorticosa espansione, ogni anno segna un punto in più al suo attivo nella lotta alle emissioni nocive, al consumo di suolo, allo spreco delle risorse idriche. Non è la stessa cosa, anche se l’obiettivo a tendere deve essere, per tutti, un modello di sviluppo pienamente sostenibile, rispetto al quale si è ancora ovunque lontani, quale che sia la Nazione considerata e quale che sia il sistema economico in essa adottato. Ciò detto, mentre i giornali ci bombardano selvaggiamente con immagini di città cinesi immerse nello smog, brulicanti di gente con mascherine, scafandri e altri sistemi di "protezione", nessun telegiornale e nessun giornale o rivista ad alta tiratura ci mostrano i 175 milioni di ettari di superficie boschiva (18,4% del territorio nazionale cinese) e i 52.400.000 ettari riforestati, in essi compresi, che fanno della Cina la terza Nazione al mondo per copertura boschiva e la prima per superficie riforestata. 

La sterminata area che il governo cinese vuole rimboschire

Nessun mezzo di comunicazione "di grido" ci parla mai dei 51 miliardi di alberi piantati ininterrottamente dal 1979 al 2009, né dei 3,5 miliardi di yuan stanziati nel solo 2008 per riforestare, entro il 2020, altri 2.000.000 di kmq (6 volte l’estensione dell’Italia!!!). E della eco – città avveniristica di Tianjin, sorta su una discarica bonificata e con utilizzo completo di tecnologie di raccolta, riciclo e riutilizzo dei materiali, chi ha parlato mai nelle nostre tv? E’ forse stata fatta qualche menzione, poi, ad altri casi analoghi in via di realizzazione, quali le Città di Dongtan e Caofeidian, nella seconda delle quali il ruolo dell’Italia è basilare? 

I primi risultati

Nemmeno il più laconico servizio televisivo si è preoccupato di mostrarci gli impianti geotermici della SINOPEC, il gruppo petrolchimico cinese con azioni per il 75% in mano al governo (prenda nota chi parla di "liberismo" imperante sotto l’ombra della Porta Celeste). Queste infrastrutture, presenti in ben 16 province, consentono di scaldare la bellezza di 40.000.000 di mq di case e fabbriche, evitando emissioni per 3.000.000 di tonnellate di CO2 (una quantità più o meno analoga all’inquinamento prodotto dal traffico romano in 10 mesi e da quello milanese in 30). Nessun cenno poi a meraviglie naturali e risorse tenacemente salvaguardate quali il Lago di Hangzhou, più precisamente chiamato "Lago dell’Ovest", esteso per 5,6 kmq e inserito nel World Heritage (Patrimonio mondiale dell’umanità). 

Veduta del lago di Hangzhou

Avete visto qualche servizio giornalistico o televisivo sul Parco solare galleggiante della Provincia dello Hanui, un gigante di 40 MW realizzato dalla SUNGROW, colosso cinese fondato nel 1997? Infine, chi si è preoccupato di presentare in modo adeguato la nuova Legge sulle emissioni inquinanti che entrerà in vigore in Cina nel 2018? Si tratta di un provvedimento d’avanguardia, messo a punto dopo molteplici consultazioni e assemblee in tutto il Paese, dopo che tutta la popolazione ha, direttamente o indirettamente, inviato alle autorità osservazioni, proposte, idee innovative per migliorare e incanalare il Paese sui binari dello sviluppo sostenibile. Secondo le nuove disposizioni, per ogni 0,95 kg di ossido di azoto o di anidride solforosa rilasciata, le fonti di inquinamento pagheranno fino a 12 yuan; le miniere verranno tassate con 15 yuan per ogni tonnellata di cascami e di materiali tossici o metalli pesanti (dannosi soprattutto per le acque); le centrali a carbone e gli impianti industriali a carbone saranno soggetti ad una tassa di 25 yuan per ogni tonnellata di cenere prodotta. Anche l’inquinamento acustico rientrerà tra i parametri soggetti a tassazione mirata: una scelta, questa, d’avanguardia, innovativa e coraggiosa. 

Parco solare galleggiante realizzato dalla SUNGROW

Naturalmente, i corifei del sistema capitalista, i russofobi e sinofobi in servizio permanente hanno giudicato debole questa legge (quando essa supera per efficacia e completezza quella di ogni altro Paese occidentale), usando argomentazioni false e intellettualmente disoneste: si è asserito che la misura non colpisce l’inquinamento delle auto, quando le autorità cinesi, generando reazioni scomposte proprio nel Paese dei moralisti ipocriti (gli Usa), hanno accresciuto massicciamente  le imposte sui veicoli di importazione più inquinanti, al punto che una jeep modello Wrangler costa in Cina 30.000 dollari più che negli Usa (71.000 dollari contro 40.000 circa). Si è poi affermato che la legge non colpisce le scorie nucleari, quando ogni mente sana, capace di intendere e di volere, si rende conto benissimo che il problema delle scorie nucleari non è quello della loro tassazione, ma, semmai, quello della loro esistenza e che quindi occorre non produrne, smantellando il nucleare, o produrne meno. La coltre del silenzio più mafioso ha poi celato un dato di fatto: il nucleare, in questi anni, ha prodotto appena il 3% circa dell’energia elettrica cinese (il 20% viene dalle rinnovabili), mentre il dato corrispondente per gli Usa è del 20% circa. Chi deve tassare le scorie o limitarle di più? I meccanismi della propaganda imperialista e sinofoba sono diabolici e onnipervasivi e, se non si sottopone al vaglio critico ogni dato e informazione, si cade sistematicamente nella tagliola della disinformazione: l’umanità deve continuare a pensare che la Cina viva costantemente immersa in una nuvola di smog ovunque, nel grigiore e nella rarefazione di aria fresca e pulita. 

Centrale solare a Himin

Così sarà più facile dar credito alle sparate di un Trump che, per continuare a spingere gli Usa sulla pista dell’inquinamento e della non negoziabilità di un modello di sviluppo distruttivo, energivoro e capace di annichilire il Pianeta in pochi lustri, ha bisogno di additare altri attori dell’economia mondiale come causa di tutte le sciagure, salvando multinazionali ed oligopoli a stelle e strisce che, invece, portano il peso delle principali responsabilità. Eppure, un altro capitolo della statistica scientifica internazionale si incarica di dar torto a questo mito: nel 2004, gli Usa, con nemmeno 300 milioni di abitanti, emettevano CO2 in atmosfera per 6.049.435.000 tonnellate annue, mentre la Cina, con Taiwan inclusa (oltre 1 miliardo di abitanti), si posizionava al secondo posto con 5.010.170.000 tonnnellate annue. Il Rapporto 2013 "Trends in Global CO2 Emissions", redatto dal Joint Research Centre (JRC) dell’Agenzia ambientale dei Paesi Bassi e della Commissione Europe, se da un lato certifica il sorpasso della Cina, con il 29% delle emissioni contro il 16% degli Usa, dall’altro ci mostra chiaramente come le emissioni pro – capite di CO2 siano, negli Usa, il doppio di quelle cinesi e, analizzato il contesto, possiamo renderci conto perfettamente di come gli Stati Uniti abbiano ridotto il loro impatto sull’ambiente non con la mitica "green economy", nuova, illusoria frontiera di una sinistra radical chic che inventa slogan per non ridiscutere radicalmente il modello di sviluppo, ma in virtù di una recessione pesantissima, occultata dai grandi annuari statistici, che ha squassato il Paese dal 2008 portando al potere Donald Trump: solo secondo i dati ufficiali, gli Usa hanno scontato, nel 2009, un calo della produzione industriale pari al 14, 5%, mentre la Cina, in quell’anno, ha fatto registrare, per la stessa voce, più o meno un 20% (quando è in crisi, la Cina popolare cresce complessivamente del 6%, tasso raggiungibile in 6 anni e oltre dai nostri dinosauri capitalisti). Inoltre, se nel 1991 gli Usa buttavano sul mercato il 22% dei prodotti industriali del mondo e la Cina seguiva a distanza di cento ruote con un umilissimo 2,5%, nel 2010 la situazione si è capovolta: gli Usa oggi sono sotto il 20%, mentre la Cina è arrivata al 15%, tallonando gli yankees. Tenendo conto di questo quadro generale, si vede meglio come le prediche e i vanti statunitensi sulla riduzione delle emissioni inquinanti poggino, in realtà, su una situazione di crisi le cui inevitabili e logiche conseguenze vengono, furbescamente, spacciate per virtuosità derivanti da lungimiranti opzioni.

La città "verde" progettata dallo studio italiano Boeri sarà presto realizzata a Liuzhou

Tutto ciò ci deve suggerire sempre di verificare notizie e dati e di inquadrarli nei contesti generali nei quali essi sono inseriti, senza con ciò diventare, per converso, cantori acritici e apologetici di un "paradiso terrestre" che non c’è e non ci potrà forse mai essere, anche raggiungendo il massimo grado di somiglianza ad esso nelle strutture sociali e negli stili di vita. La questione è di dare a Cesare ciò che è di Cesare e alla Cina ciò che è della Cina, valutando nella sua complessità, nella sua capacità di trasformazione e di revisione un Paese col quale tutti sono e saranno ancor più obbligati a fare i conti. Un Paese che ci prepara sorprese ed opportunità, lontano da schemi e da facili profezie. 

TABELLE


Rapporto tra energia nucleare ed eolica prodotte in Cina


La potenza installata di energia solare in Cina in rapporto ad altri Paesi 


Potenza eolica installata in Cina, in rapporto ad altri Paesi

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI E SITOGRAFICI: 

Mao Tse Tung: Opere complete in 25 volumi, Edizioni Rapporti Sociali 

https://dengxiaopingworks.wordpress.com/ (sito con le opere di Deng Xiaoping)

Jiang Zemin, Selected Works, Foreign Languages Press, Pechino 2013


David L. Shambaugh: China’s Communist Party, University of California Press, 2008 

Yiu - chung Wong: From Deng Xiaoping to Jiang Zemin, University Press of America, 2005

Lance L.P. Gore: The Chinese Communist Party and China’s Capitalist Revolution, Routledge, 2011. Fonte di parte, eccessivamente prona alla tesi dell’esistenza di un sistema perlopiù capitalista in Cina, ma utile e dettagliato sotto il profilo argomentativo e statistico. 


Limes, n° 1/2017: "Cina – Usa, la sfida" 













venerdì 11 agosto 2017

Come Stalin, il Partito e il potere sovietico posero fine allo iato tra quadri tecnico-dirigenziali e classe operaia nell'URSS del primo Piano Quinquennale




REDAZIONE NOICOMUNISTI


Di LUCA BALDELLI



Il problema delle relazioni tra classe operaia e mondo intellettuale si pose, in tutta la sua drammatica cogenza, fin dalla vittoria della Rivoluzione socialista bolscevica del 1917. La guerra contro le bande monarchiche e scioviniste che, appoggiate dai circoli imperialisti internazionali, misero a ferro e fuoco il Paese durante la Guerra civile del 1918/21, con l’intento di rovesciare il neonato potere sovietico, vide numerosi intellettuali schierarsi a fianco del socialismo, della causa degli operai e dei contadini: V.V. Majakovskij, A.V. Lunacharskij, A. A. Blok, solo per citarne tre. Altrettante figure del mondo della cultura, però, coltivarono i germi nefasti dello scetticismo e del disfattismo o, peggio ancora, scelsero il fronte opposto, quello della reazione: M. A. Bulgakov fu assai tiepido verso il nuovo ordine sociale; Anna Achmatova si chiuse in un atteggiamento di snobistico disprezzo, mentre M. Gorkij additò addirittura come pericolo mondiale il mugik russo oppresso da secoli di sfruttamento e ora pronto, liberate le catene, a dare l’assalto ad ogni "civiltà" con la sua indole "barbara ed asiatica".

V.V. Majakovskij
 Fin qui, abbiamo illustrato le posizioni di poeti e scrittori; il grandangolo dello storico, però, il suo obiettivo più acuto e potente, non può però che andare a catturare anche altre figure di intellettuali: per la precisione, quelle di migliaia e migliaia di ingegneri, tecnici, economisti, specialisti vari i quali si trovarono davanti, potente e trascinante come nessun’altro, il ciclone dell’Ottobre. Non sempre la convivenza fu facile tra questi e il nuovo assetto di potere e le ragioni sono anche abbastanza semplici da comprendere: di estrazione alto – borghese, quando non addirittura aristocratica, la gran parte di questi quadri tecnico – scientifici nutriva sentimenti di aperta ostilità verso chi aveva spazzato via, con la ramazza della più autentica giustizia sociale e della più radicale rottura col passato, vecchi privilegi di casta e rendite di posizione accademiche anacronistiche e regressive. In altri termini, era perfettamente fisiologico, secondo le bronzee leggi della dialettica storica e sociale, il fatto che una parte consistente di questi "cervelli" si schierasse contro la marea montante della Rivoluzione proletaria. Contro gli elementi visceralmente antisovietici, il governo bolscevico dovette per forza prendere provvedimenti limitativi della libertà, pena difficoltà insormontabili in settori strategici della produzione. Vi furono altri esponenti del mondo tecnico – scientifico che, pur essendo di origine borghese, si dichiararono pronti a servire la causa del socialismo, con lealtà, abnegazione e spirito costruttivo.

A. A.  Achmatova
Verso questi, il potere sovietico, all’inizio, non sempre si distinse per acume e correttezza: se alcuni raggiunsero da subito posizioni elevate e prestigiose, in funzione delle loro capacità, altri furono penalizzati nell’accesso ad alcuni canali professionali e accademici e i loro figli, per diverso tempo, non poterono iscriversi a determinati istituti e università o, pur potendolo fare, incontrarono diverse difficoltà, diversamente dai figli degli operai e dei contadini. Questo stato di cose, se da una parte poteva essere interpretato come il giusto, inevitabile contrappasso sociale, di classe, per secoli e secoli di discriminazione, ghettizzazione, esclusione ai danni delle classi subalterne, per un potere eticamente superiore quale quello sovietico, pervaso dai più nobili valori universalisti, poneva grandi problema di ordine etico, politico, sociale. Problemi di merito e di metodo, di valori e di opportunità al medesimo tempo. Il governo degli operai e dei contadini, teso alla liberazione di tutta la società dalle catene dello sfruttamento e della tirannia, non poteva tollerare al lungo alcuna discriminazione deliberata sulla base dell’estrazione sociale dei cittadini; anche giustificata in parte dall’azione eversiva dei ceti spodestati, essa rappresentava sia una violazione dei principi marxisti – leninisti sia un ostacolo controproducente, illogico, antisociale al pieno sviluppo dell’Urss tutta.

M. A. Bulgakov
 A metà degli anni ’20, sempre più scienziati e quadri tecnico – dirigenziali formatisi in epoca zarista iniziarono a convincersi della superiorità del socialismo e, mano a mano che esso mostrava i suoi innegabili vantaggi, decisero contribuire al suo ulteriore sviluppo, di lavorare alla sua definitiva vittoria come faro per tutta l’umanità. Vincendo la diffidenza e l’ostilità di ambienti dogmatici e settari ancora influenti all’interno del Partito Comunista (bolscevico) dell’Urss, quasi tutti legati a Trockij, un gruppo di scienziati e luminari di varie branche fondò, fin dal 1928, l’Associazione panrussa degli scienziati e dei tecnici, per coadiuvare in ogni modo il processo di edificazione del nuovo ordine sociale. Questo simposio non fu di certo un organismo esclusivamente accademico, bensì rappresentò un avanzato fronte di lotta e di proposta, un punto di raccordo fondamentale tra i lavoratori del braccio e delle mente, tra la politica e la scienza, nel rifiuto di ogni separazione castale ma anche di ogni visione operaistica grezza, infantilmente estremistica e massimalista. Tra le figure più eminenti dell’Associazione panrussa degli scienziati e dei tecnici ricordiamo il biochimico A.N. Bach, fondatore del prestigiosissimo Laboratorio chimico centrale sovietico, il patologo A.I. Abrikossov, figlio di proprietari terrieri, fornitori ufficiali di cioccolata per la Corte imperiale, il microbiologo ed epidemologo N.Gamaleja, figlio di nobili di estrazione cosacca, campione della lotta al tifo e al vaiolo, il chimico N.S. Kurnakov, fondatore dell’analisi fisico – chimica a livello mondiale e autore del test usato nell’estrazione del platino.


Man mano che nella compagine del VK (b) P prendeva forza la linea equilibrata e saggia di Stalin, retrocedevano, irreversibilmente, le posizioni dogmatiche, avventuriste, sterilmente volontariste o pseudo – operaiste della "sinistra" trockijsta, assieme a quelle rinunciatarie, capitolarde, pervase di sopravvivenze piccolo – borghesi, della "destra" di stampo principalmente buchariniano. Questo si riflettè, inevitabilmente, anche sul ruolo e sulla posizione degli scienziati, degli intellettuali e dei tecnici nel quadro della costruzione del socialismo. Se nel campo letterario e artistico Maksim Gorkij iniziò a cantare le lodi del nuovo sistema, mettendo in evidenza l’opera di recupero sociale effettuato dall’OGPU e del sistema dei GULAG (nel 1929 visita le Isole Solovetsky, nel 1934 effettuerà un reportage dal mastodontico cantiere del Canale Mar Bianco – Mar Baltico), se M. A. Bulgakov abbandonò vecchi pregiudizi e timori infondati, frutti della mendace propaganda controrivoluzionaria e dell’azione di elementi deleteri presenti in seno al Partito e allo Stato, da parte dei quadri tecnico – scientifici sempre più numerosi giunsero i contributi innovativi, le invenzioni, i suggerimenti costruttivi per lo sviluppo, l’affinamento, la trasformazione, l’evoluzione dei processi produttivi.

 Nel 1928, con il concorso e l’attiva partecipazione di ogni istanza economica, sociale, politica, culturale, venne elaborato il Primo Piano Quinquennale per gli anni 1928/1933, gigantesca, formidabile, ineguagliata opera di ingegneria sociale, destinata a mutare per sempre il volto della vecchia Russia e dell’Urss e ad affermare ritmi di sviluppo mai visti in nessuna parte del mondo. Il ruolo degli scienziati, dei tecnici, degli ingegneri, dei quadri dirigenziali nella definizione delle linee del Piano non fu secondo a quello di altri attori sociali e di altri portatori di interesse. Tutto si contemperò armonicamente nel quadro dell’interesse generale e nella lotta per l’avanzamento del socialismo. L’ostilità e la diffidenza reciproche tra quadri e classe operaia cedettero il passo, progressivamente ma inesorabilmente, alla reciproca comprensione e intesa, nell’interesse dello scopo supremo: la creazione di una nuova civiltà di liberi ed eguali. La classe operaia sempre più fece tesoro del patrimonio di nozioni e saperi trasmesso dagli esponenti dell’apparato tecnico – scientifico; dal canto suo, tale apparato sempre più si compenetrò della vivida energia sperimentatrice e creatrice del proletariato, con le sue intuizioni, le sue opere concrete, i prodigiosi stimoli e le innovazioni studiate e messe in atto nella trincea della produzione.

 Nel 1928, nell’industria lavoravano ancora soltanto 13.700 ingegneri: lo 0,52 % della classe operaia. Sgomberato il campo da sabotatori e quinte colonne, il potere bolscevico valorizzò sempre più l’opera dei quadri intellettuali onesti e leali, mentre, al contempo, potenziò al massimo le fila degli ingegneri, dei tecnici, degli scienziati: se nel 1928, nei vari Politecnici e Istituti ad essi collegati, studiavano 18.900 persone, nel 1933 esse erano diventate 233.500. Un dato eccezionale, di per sé eloquente, della capacità di organizzazione e promozione dei saperi nel quadro della società sovietica. Segnatamente, nel 1928/29 il Partito inviò a studiare e a formarsi, nei Politecnici e negli Istituti tecnici superiori, 1000 militanti di avanguardia, tutti di estrazione operaia e contadina, i quali sarebbero diventati, in seguito, rinomati direttori di produzione, tecnici, pedagoghi, medici. Il meglio che il nuovo potere sovietico poteva offrire alla società tutta, liberando energie, talenti e genii compressi e soffocati per secoli dai macigni dell’oppressione di classe. Un’altra cifra, meglio di ogni altra, offre il quadro dello sviluppo incessante, prodigioso della Terra dei Soviet lungo l’asse del Primo Piano Quinquennale: se nel 1926 vi erano, in tutta l’Urss, 11.000.000 di operai e impiegati, nel 1933 se ne censirono 22.900.000. Il numero dei quadri intellettuali tecnico – dirigenziali, crebbe in maniera ancora più impressionante. A dirigere la massima autorità della pianificazione dal 1925 al 1934, ovvero il GOSPLAN, furono due figure lucide, coraggiose, integerrime: Gleb Maksimilianovic Krzhizhanovskij e Valerian Vladimirovic Kujbyshev, ambedue di origini altolocate: borghese di rango il primo, di ascendenza nobile il secondo (era figlio di un militare di carriera). Essi, assieme a Stalin e ai vertici del Partito, degli organi istituzionali e del potere popolare, furono i "capitani" della grande svolta del Paese verso la modernità, la prosperità, la libertà dalle residue catene del capitalismo.

Nell’eroica attuazione del Piano Quinquennale, tra difficoltà, sabotaggi, complotti internazionali mai cessati, essi poterono contare su figure di specialisti di primo piano: I.V. Bardin, ingegnere capo nella costruzione del Complesso metallurgico di Kuzneck; I.M. Gubkin, geologo, Presidente del prestigiosissimo Congresso Geologico Internazionale con sede a Mosca; I. G. Aleksandrov, autore del progetto della gigantesca centrale sul Dnepr; A. V. Winter e altri ancora.

La diga del Dnepr
Naturalmente, nel vivo di una lotta e di un impegno indefesso per la trasformazione del Paese, non mancarono contrasti, polemiche e anche processi a carico di sabotatori annidati negli apparati tecnico – dirigenziali e scientifici. Nel 1930 fu la volta del Processo del Partito industriale, a carico di otto ingegneri sovietici che, in combutta con circoli imperialisti internazionali, avevano attuato sabotaggi sistematici alla produzione, organizzando anche un partito segreto che avrebbe dovuto prendere il potere con l’aiuto della Francia, lanciata in un’invasione militare del territorio sovietico. La storiografia anticomunista ha intinto e intinge il pane in alcuni aspetti poco chiari del processo che però, in gran parte, sono stati e sono tali solo per la volontà dei circuiti antimarxisti e antisovietici di non comprendere implicazioni, legami, scaricabarile che non mancarono e che fecero finire nel tritacarne anche persone in buona fede, colpevoli solo di cattive frequentazioni. Non vi fu alcun processo farsa: le accuse erano vere, fondate, inoppugnabilmente provate anche da dichiarazioni di personaggi tutt’altro che teneri verso il potere sovietico. Louis Fischer, in Machines and men in Russia, scrisse:
"che ingegneri russi si siano dedicati e si dedichino al sabotaggio, è fuori dubbio. Gli specialisti americani che lavorano in Russia lo hanno ripetutamente affermato in privato e alla stampa. E prove particolareggiate confermano le loro asserzioni. Ma questo fatto non costituisce legittimo motivo per arrestare e condannare una intera classe, molti dei cui componenti sono cittadini leali e devoti".
Obiettivamente, Fischer mise in risalto due aspetti incontrovertibili, sui quali ci siamo soffermati ed abbiamo argomentato: tantissimi ingegneri e tecnici, la stragrande maggioranza di essi, erano ormai del tutto solidali con il potere sovietico e non concepivano alcun progetto eversivo ai suoi danni. Allo stesso tempo, il complotto per far crollare l’Urss era tutto meno che fantasia, e trovava terreno fertile tra vari specialisti e quadri che mantenevano posizioni da infiltrati e agenti dormienti. Individuate e chiarite con cura, rigore e precisione le posizioni di ciascuno degli imputati, il processo e l’insieme dei provvedimenti restrittivi adottati videro numerose revisioni e molti ingegneri e tecnici, arrestati all’inizio del processo, vennero liberati. I massimi organismi della pianificazione economica, accanto al Partito e ai vertici dello Stato, criticarono gli eccessi della OGPU e gli sconfinamenti dell’azione penale in campi impropri. Fu la prova provata, questa, che in Urss non esisteva né poteva esistere uno Stato di polizia: grazie alla vigilanza del Partito e del popolo tutto, la giustizia sovietica funzionava a puntino e nessuno correva il rischio, avendo a che fare con essa, di finire in un tritacarne a tempo indeterminato, come avviene ai poveri cristi perseguitati dalla giustizia dei Paesi borghesi, ai quali può capitare di trascorrere anni e anni in cella senza alcuna colpevolezza effettiva riscontrata.

Nel 1931 fu la volta del processo contro 14 professori menscevichi e funzionari dello Stato, accusati di attività controrivoluzionaria mirata alla restaurazione del potere di grandi capitalisti espropriati nel 1917, in combutta con circoli imperialisti francesi e britannici.

Nel 1933, infine, vi fu il processo contro sei ingegneri britannici, dieci ingegneri russi e una segretaria sempre russa, accusati di sabotaggio a danno di centrali elettriche, con il contorno solito di spionaggio e corruzione. Un copione tipico e ricorrente nelle cucine delle trame imperialiste, specie britanniche. La reazione al processo fu la riprova della colpevolezza degli Inglesi: l’Ambasciatore britannico, infatti, sin dall’inizio si profuse in dichiarazioni incendiarie e toni rabbiosi contro l’Urss, anche se si era istituito un processo davanti ad un Tribunale regolare di un Paese sovrano, con prove inoppugnabili. Il verdetto, dopo che accusa e difesa si erano confrontati su un terreno di correttezza giuridica e formale indiscutibile, fu il seguente: 16 condannati, un assolto (un ingegnere britannico). In spregio ad ogni rispetto della sovranità e della giustizia di un Paese straniero, ad ogni principio di non ingerenza e, infine, ad ogni considerazione di tatto ed opportunità, la Gran Bretagna impose un blocco commerciale su alcune merci che, se scalfì appena il potenziale produttivo sovietico, procurò gravi danni ad alcuni interessi economici inglesi. Un pesante boomerang tornava così in testa a chi l’aveva lanciato in aria nello spazio eurasiatico della grande Urss, con l’intenzione di coprire altarini e complotti eversivi ai danni del primo governo operaio e contadino del mondo.

 Più tardi, riferendosi a fatti avvenuti nel 1928, anche John Littlepage, ingegnere americano, tutt’altro che comunista, presente in Urss nel quadro di progetti di cooperazione, riconobbe in maniera inconfutabile la realtà dei sabotaggi, compiuti non solo da alcuni quadri, ma anche da elementi infidi presenti tra gli operai:

"un giorno del 1928 entrai in un’officina di generatori nelle miniere di Koshkar. Per caso, la mia mano affondò nel recipiente principale di una grande macchina Diesel ed ebbi la sensazione di qualcosa di grumoso nell’olio. Feci immediatamente fermare la macchina e togliemmo circa un litro di sabbia di quarzo, che non poteva che esservi stata gettata intenzionalmente. A varie riprese, abbiamo trovato, nelle nuove installazioni delle officine di Koshkar, della sabbia in ingranaggi come i riduttori di velocità che sono interamente chiusi e possono essere aperti solo sollevando il coperchio per il manico. Questo meschino sabotaggio industriale era così comune in tutti i settori dell’industria sovietica, che gli ingegneri russi non se ne occupavano per nulla e furono sorpresi della mia preoccupazione quando lo constatai per la prima volta (…) parecchie persone non possono vedere le cose allo stesso modo e restano dei nemici implacabili dei comunisti e delle loro idee, anche quando sono entrati in un’industria di Stato".

Riguardo agli episodi giudiziari sopra ricordati, mai si udirono toni sguaiati e demagogici contro ingegneri, tecnici e quadri dirigenziali, nella stampa e nel Paese: alla sbarra erano alcuni di loro, non l’intero gruppo sociale e professionale! Alcuni rantoli estremistici si sentirono, ma vennero subito soffocati non dalla censura, che non esisteva se non nelle teste dei propagandisti borghesi e filo – capitalisti, ma dal buonsenso, dalla linea generale del Partito che si era andata consolidando, dalla considerazione della quale godevano tantissimi tecnici e intellettuali che in tutto il Paese stavano lavorando alla costruzione ed al potenziamento di dighe, centrali elettriche, strade, ferrovie, industrie. Nel 1931, Stalin, rafforzando la sua posizione in maniera democratica, con la forza delle idee e dell’appoggio di milioni di uomini e donne in tutto il Paese, aveva pronunciato alcune parole inequivocabili:
"Nessuna classe governante è mai riuscita ad andare avanti senza i suoi intellettuali (…). I bolscevichi devono seguire una politica tale da attirare a noi gli intellettuali e devono occuparsi del loro benessere".
Non vi dovevano essere più persecuzioni immotivate di ingegneri, azioni ostili contro chi era leale e trasparente nel pensiero e nell’azione all’interno dei quadri tecnico – dirigenziali, nessuna frattura artificiosa e assurda tra lavoratori del braccio e della mente, né sulla base di scelte inopinate né, tanto meno, sulla base di demenziali considerazioni sulle origini di classe. Dopo il pronunciamento di Stalin, gli organi del potere sovietico, in armonia con la discussione sviluppatasi dentro al Partito, nei Sindacati, nelle fabbriche, lavorarono assieme, nell’anno 1931, alla formulazione di un nuovo Decreto che sancì alcune misure di importanza storica a beneficio dei quadri tecnico – dirigenziali e degli specialisti : uniformità di razioni alimentari e di trattamento in sanatori e case di riposo tra questi e gli operai; assegnazione di appartamenti confortevoli, adeguati soprattutto per l’attività di studio e approfondimento (gli appartamenti dei quadri avevano una stanza o anche due in più); rimodulazione delle aliquote sul reddito in senso premiante; ammissione dei figli in tutte le scuole di ogni ordine e grado, senza alcun impedimento o potenziale riserva ostativa.

A questi provvedimenti fece seguito un clima di grande fiducia e distensione : molti ingegneri, medici, tecnici, architetti, specialisti di differenti branche furono liberati dal carcere, promossi a posizioni di prestigio e responsabilità, decorati con onorificenze prestigiose quali l’Ordine di Lenin. Nessun ingegnere avrebbe potuto più essere accusato di sabotaggio se, per fare solo un esempio, avesse proposto di compiere prospezioni geologiche in un punto del Paese, senza poi aver la fortuna di trovare i giacimenti di petrolio ipotizzati in prima istanza. Arnold Soltz, autorevolissimo giurista sovietico, scrisse sulle "Izvestija":
"Il ritirare uomini da posti importanti dell’industria e nell’amministrazione civile ha causato allo Stato perdite enormi".
Per il futuro, non si doveva più ammettere nemmeno l’ipotesi del carcere, in assenza di una sufficiente e solida base probatoria. La civiltà giuridica sovietica aveva risolto in gran parte un nodo, quello dei diritti dell’imputato e dell’uso arbitrario del carcere, che per le “ democrazie “ borghesi è, ancora oggi, ben lungi dall’esser stato districato. Ancora più forte e deciso fu il Commissario del Popolo alla Giustizia, Nikolaj Krilenko: egli biasimò e destituì un Procuratore provinciale che aveva istituito un procedimento legale a carico di alcuni ingegneri, senza un sufficiente carniere di prove a supporto dell’azione penale. Insomma, la società sovietica, con il consolidamento della linea di Stalin e della stragrande maggioranza dei militanti, si avviò sul felice e radioso sentiero dello sviluppo più pieno nella libertà, nella vera democrazia e nella coesione sociale tra profili professionali e sociali differenti, prima artatamente messi l’uno contro l’altro da correnti disgreganti, da visioni settarie dei rapporti sociali e da complotti etero – diretti dai circoli imperialisti. Quella compattezza consentì al Paese di fare il suo ingresso nel mondo sviluppato e di prepararsi, più tardi, all’inevitabile scontro con la bestia nazi – fascista.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI E SITOGRAFICI 

Sidney e Beatrice Webb: Il comunismo sovietico: una nuova civiltà – Volume secondo (Einaudi, 1950).

Storia universale dell’Accademia delle Scienze dell’Urss – Volume 9 (Teti Editore, 1975).

Ludo Martens: Stalin, un altro punto di vista (Zambon editore, 2005).

Lineamenti di storia dell’Urss, Vol. II (Progress Edizioni, 1982)

Louis Fischer: Machines and men in Russia (Harrison Smith, 1932)

J.D. Littlepage e Demare Bess: Alla ricerca dell'oro sovietico, (Garzanti, 1946)