giovedì 21 luglio 2016

AUGUSTO CESAR SANDINO. SANGUE LATINO E CUORE DI LIBERTADOR

REDAZIONE NOICOMUNISTI



Di Luca Baldelli



Sigilllo di Sandino
Se si dovesse citare un esempio di “Che“ Guevara ante – litteram, di spirito latino – americano insubordinato verso ogni forma di oppressione e, al contempo, profondamente legato al caleidoscopico milieu di tradizioni, sensibilità e vibrante nazionalismo progressista serpeggiante dai Caraibi fino alla Terra del Fuoco, un posto d’onore sarebbe senza dubbio riservato ad Augusto Cesar Sandino.


Nella sua figura sono mirabilmente riassunti tutti i tratti caratteristici del libertador e, assieme, tutte le note dello spartito antimperialista e socialista del XX secolo. E’ il 18 maggio del 1895 e a Niquinohomo, centro del Nicaragua famoso per ospitare la più antica Chiesa del Paese, la proletaria Margherita Calderon, lavoratrice agricola di una ricca piantagione di caffè, mette al mondo un figlio frutto di una relazione con il proprietario della piantagione stessa, il ricco e potente Gregorio Sandino. La vita del bambino, battezzato col nome di Cesar Augusto, nome rivelante auspici “ imperiali “ e futuri sogni di gloria da parte del megalomane genitore, non è semplice. A 9 anni viene infatti abbandonato dalla madre e inviato a vivere con la nonna materna, per poi tornare in casa della famiglia paterna a lavorare da peon, ovvero praticamente da schiavo, nelle piantagioni.

Anni ’30: contadini in una piantagione in Nicaragua
Curvo sotto al sole cocente della terra natia, fecondo ventre di meraviglie naturali non godute dallo sguardo chino dello sfruttato, Sandino comincia presto a comprendere i meccanismi della dittatura feudal – capitalista che strangola le potenzialità del Nicaragua, a prescindere dai fantocci posti a capo di governi con debolissime, quasi ironiche parvenze di sovranità e autonomia. Nel luglio del 1912, a 17 anni, Augusto Cesar Sandino è testimone di un fatto che segnerà per sempre il suo destino: l’intervento militare degli Stati Uniti destinato a reprimere una rivolta scoppiata contro il Presidente Adolfo Diaz, fantoccio yanqui. Gli Usa intervengono massicciamente per difendere, nella figura di Diaz, il garante dei loro abusi e dei loro interessi banditeschi, contro le truppe rivoluzionarie guidate da Benjamin Zeledon, ucciso nella storica Battaglia della Collina di Coyotepe che segna, con la presa di Masaya, la vittoria degli imperialisti.

Nel 1921, a 26 anni, Sandino è protagonista di un tentato delitto, in quanto cerca di far fuori il figlio di Dagoberto Rivas, notabile conservatore, il quale aveva offeso sua madre con parole pesanti. Qualche tempo dopo, il futuro rivoluzionario emigra e si stabilisce in Messico, dove trova impiego presso la raffineria della “Standard Oil “ sita nei pressi del porto di Tampico. Qui, tra i sombreri, i cactus e i ponchos logori o finemente ricamati, sfoggiati tanto da popolani quanto da dignitari, è tutto un ribollire impetuoso e fremente di fermenti rivoluzionari, anche se il governo cerca di soffocare tutto nella pesante cortina della reazione termidoriana, mascherando con l’attuazione della Costituzione del 1917 la repressione delle ali più radicali della rivolta sociale e antimperialista. A contatto con la dura realtà dei lavoratori messicani, sfruttati dagli oligopoli stranieri e dai reazionari indigeni, Sandino matura una compiuta coscienza rivoluzionaria: si avvicina alla Chiesa Avventista del Settimo Giorno, nonché ai circoli anarchici, comunisti e antimperialisti. Il suo è un credo infiammato di carica eversiva, contro il potere e contro i prepotenti; un credo sincero, genuino, fresco e, soprattutto, profondamente sincretico, che unisce e non divide, che integra e non esclude, che coniuga materialismo dialettico e spiritualità evangelica.


La storia del sandinismo sarà sempre permeata da questo connubio, a tal punto che, a partire dal 1979, con la vittoria dei rivoluzionari di Ortega sulla corrotta tirannide somozista, ricopriranno cariche governative di primaria rilevanza sacerdoti quali Ernesto Cardenal, Miguel d’Escoto, Fernando Cardenal ed Edgar Parrales. Fianco a fianco con adamantini marxisti – leninisti e socialisti di sinistra. Socialismo radicale e cristianesimo social – rivoluzionario troveranno insomma, nella Rivoluzione sandinista, un punto di sintesi inedito e vincente. Torniamo però agli anni ’20, ruggenti, in Nicaragua, non certo nel senso edonista con il quale vengono rievocati nell’occidente borghese. Nel Paese a ruggire è lo spirito rivoluzionario, la rivolta sociale e politica che mette nel proprio mirino le corrotte oligarchie locali e i loro padrini nordamericani. In questo quadro Sandino, nel 1926, forte di esperienze di vita e di lotta assai istruttive, che lo hanno elevato al di sopra di un confuso ribellismo anarchico, torna nella terra natia e si getta nel vivo fuoco della lotta contro il Presidente – fantoccio Adolfo Diaz, puntellato nell’usurpata poltrona dai dollari americani e dalle armate yanqui.

Si tratta di riportare al potere il liberale Juan Bautista Sacasa, liberale esiliato e sostenuto dalle truppe del generale ribelle Josè Maria Moncada Tapia. Sacasa è riconosciuto come legittimo Presidente del Nicaragua dal Messico, che non solo strizza l’occhio ai rivoluzionari, ma invia armi per appoggiarne concretamente la causa. Sandino è parte in causa, non sta alla finestra, non è sua abitudine; al tempo stesso, però, evita di legare i propri destini fino in fondo, senza alcun discernimento, a dei liberali che, sempre più, da giacobini radicali, araldi intransigenti di istanze sociali, si stanno annacquando nel mare magnum (anzi, nella cloaca minor) del compromesso e dell’accettazione dell’ordine costituito. Posizione, questa, assai lungimirante e lucida, come vedremo.

Sandino insieme a Sacasa
Che fare, dunque? All’interrogativo leninista, Sandino risponde con il pragmatismo e il coraggio che lo contraddistinguono, coniugando, mazzinianamente, pensiero e azione: mette in piedi un’armata di minatori delle miniere d’oro del Paese, gente coi calli alle mani e le idee molto chiare, ai quali si uniscono poi artigiani, operai ed esponenti della piccola e piccolissima borghesia. Questo primo nucleo di esercito sandinista, permeato di volontarismo, fiducia cieca nelle proprie forze, impavido ottimismo, attacca la roccaforte conservatrice di S. Albino; l’esito è una cocente sconfitta, ma l’acciaio è ormai temprato e la battaglia, persa sul terreno tattico, è guevarianamente vinta, cioè vinta moralmente. I liberali attaccano Sandino, ufficialmente per il suo “avventurismo“, in realtà perché ne temono le capacità e potenzialità. Questo atteggiamento convince sempre più il capo rivoluzionario a troncare i rapporti con i liberali e a pensare, sulla base di un’evidenza sempre più eclatante, ad una ferrea alleanza con la classe contadina, da sempre emarginata.

Questa classe va coinvolta e messa al centro di un programma di liberazione e riscatto sociale: ecco l’intuizione di Sandino, la sua prodigiosa lucidità visionaria, che i vecchi notabili liberali, ignorano quando onesti intellettualmente, da ingenui positivisti, o sbeffeggiano e denigrano quando disonesti e corrotti. La classe contadina, che da secoli sfama e mantiene le città e, in primis, i ricchi sfruttatori, venendo derubata del proprio pane, attende l’ora della sua rivincita, e questa potrà venire solo dalla rivoluzione, con il rovesciamento del vecchio ordine, la riforma agraria e l’abolizione dei lacci schiavili posti al collo della Nazione dall’imperialismo nordamericano.

Il 1927 è un anno decisivo: l’armata sandinista, sempre più numerosa, dà una mano decisiva ai liberali in marcia verso la capitale Managua. Sembra che si sia sulla strada della vittoria sicura ma, quando la sorte sembra arridere alla prospettiva della conquista del centro nevralgico del Paese, ecco che l’ombra della corruzione e del compromesso torna ad avvolgere col suo manto nero la Nazione: la colonna liberale in marcia si arresta e si piega al cessate il fuoco e all’armistizio proposto dagli yanquis, che altro non vogliono se non prendere tempo e valutare su quali cavalli puntare per continuare a dominare il campo.

Patrioti sandinisti
Il 4/5/1927 viene firmato il “Pacto del Espino Negro“ tra il generale Moncada e il Presidente usurpatore Diaz. Agli Usa, che quel patto lo hanno scritto nella persona del Segretario di Stato Henry L. Stimson, viene riconosciuto il “diritto” di restare nel Paese con proprie truppe fino al 1928, data prescelta per elezioni farsa in cui i vincitori saranno, sempre e comunque i nordamericani. Questo, è ovvio, sulla carta. In realtà, l’imperialismo nordamericano si installa nel Paese per controllarlo in ogni suo centimetro quadrato e per sempre, non per un lasso così ristretto di tempo.

I capi rivoluzionari, Augusto Cesar Sandino, che controlla la zona di Nueva Segovia, con le sue alture impervie e selvagge, e Francisco Sequeira Moreno (detto “Chico Cabuya“ ), capo carismatico degli indomiti ribelli di Chinandega, rifiutano quei patti estorti dagli yanquis con la violenza, il ricatto e i dollari. Sotto le loro bandiere, continuano la lotta contro usurpatori e nemici interni ed esterni. Sandino, in particolare, si ritira nell’altura di El Chipote e crea una nuova bandiera per i suoi uomini: un vessillo rosso vermiglio con una striscia nera, a simboleggiare il fervore della lotta e, insieme, il sacrificio fino alla morte per la causa della libertà.

Bombardamento su El Chipote
Emblematiche le parole del capo rivoluzionario, mentre procede alla fondazione dell’ “Ejercito Defensor de la Soberania Nacional “ (EDSN), ovvero dell’ ”Esercito di Difesa della Sovranità Nazionale“: “ No me vindo ni me rindo ; yo quiero patria libre o morir“ (“Non mi vendo e non mi arrendo; voglio la patria libera o la morte”). Forte di un seguito popolare sempre più capillare ed entusiastico, Sandino attacca frontalmente truppe mercenarie interne e marines americani, per la gioia di un popolo che, ormai, non nutre più alcuna fiducia né nei conservatori né nei liberali, tanto che un detto nicaraguense dell’epoca recita : “Cinco liberales y cinco conservadores suman diez bandidos“ (“Cinque liberali e cinque conservatori fanno dieci banditi“).

Il 16 luglio del 1927 rappresenta una data storica indelebile: l’Esercito sandinista, infatti, si cimenta nell’epica Battaglia di Ocotal. In questo confronto con il potere e con i suoi padrini imperialisti, i rivoluzionari combattono con indescrivibile ardimento, costringendo i marines e i loro collaborazionisti locali, sonoramente battuti, ad abbandonare il campo. Si evita il tracollo definitivo, con esiti rovinosi, solo grazie ai massicci bombardamenti dell’aviazione militare, che semina morte e distruzione dall’alto, mentre le truppe di terra yanqui, furibonde per la sconfitta, si vendicano sulla popolazione civile uccidendo persone inermi e violentando donne.

Marines ad Ocotal
Il 27 febbraio del 1928, altro scontro epico: la Battaglia di “El Bramadero“, nella quale i sandinisti, temprati nel fuoco di Ocotal, e perfezionati nelle tecniche di guerriglia, assaltano le truppe nemiche in agguati rocamboleschi, da manuale, con fenomenale abilità strategico – tattica. Cinque ore di pugna cruenta ed eroica, con incursioni anche nelle proprietà dell’ex Segretario di Stato americano Knox, prima tra tutte la miniera denominata “La Luz“. Il nome di Sandino risuona ormai in tutto il Paese, che riconosce nella sua figura l’erede dei grandi libertadores latinoamericani.

All’ammiraglio Sollers che lo invita a deporre le armi per trarne beneficio, Sandino risponde inflessibile: “La sovranità di un popolo non si discute, ma si difende con le armi in pugno. La resistenza armata ci farà conseguire i benefici ai quali lei allude, esattamente come l’ingerenza straniera nei nostri affari interni causa la perdita della pace e provoca l’ira del popolo”. Al culmine del sostegno popolare, i sandinisti estendono la loro area di influenza in varie zone e anche la Capitale, Managua, è ormai nel loro raggio d’azione, con ripetute incursioni esaltate dalla popolazione. Dinanzi al dilagare delle forze rivoluzionarie, i nordamericani se la danno a gambe, ritirando i marines dal Paese.

Reparto di sandinisti
Sandino, mostrando abilità diplomatica, invia al Presidente Sacasa una proposta di pace, nell’interesse del Paese e della sua sovranità: essa viene accettata e così, il 2 febbraio 1933, termina ufficialmente la guerra. La pace, però, si fa strada tra mille ostacoli e volge quasi subito in farsa: infatti, mentre i sandinisti disarmano e tengono fede ai patti, gli yanquis seminano zizzania per interposta Guardia Nazionale, un corpo da loro creato ad hoc e messo in mano al feroce e perfido Anastasio Somoza Garcia, fondatore della dinastia tirannica e corrotta che reggerà le sorti del Paese fino al 1979.

Luridi sgherri della Guardia Nacional con teste mozzate di sandinisti
Questo corpo di pretoriani procede a persecuzioni, azioni provocatorie e crimini contro i sandinisti e i loro simpatizzanti. E’ chiaro che, sotto il manto della pace, si vuole riattizzare un fuoco che divampi e divori le temute forze rivoluzionarie, uscite vincitrici dal confronto. Sandino entra nel mirino di un vasto complotto, ordito tra Managua e Washington, da menti non raffinatissime, ma votate all’intrigo e alla diversione. Il 21 febbraio 1934, dopo una cena presso La Loma (il Palazzo presidenziale di Managua), Sandino, grazie ad una trappola ben congegnata, viene catturato, condotto presso il monte chiamato La Calavera e ucciso assieme ad altri compagni di lotta. Viene eliminato pure il fratello, Socrates, colonnello dell’Esercito rivoluzionario.

Il padre, Gregorio, presente all’ultima cena e ai successivi avvenimenti, secondo alcune testimonianze proferisce le testuali parole sul tragico destino del figlio:

“Lo stanno uccidendo. Sarà sempre una verità quella per la quale colui che si pone come redentore, muore crocifisso“.

Il Paese, eliminate le avanguardie più coscienti e coraggiose, è pronto per il passaggio di poteri, che avviene di lì a poco, da Sacasa a Somoza. Con questo avvicendamento, voluto dai nordamericani, la Nazione sperimenterà più di 40 anni di tirannia oligarchica e yanqui – dipendente, una tirannia che la trasformerà ancor di più in una piazzaforte dell’imperialismo, del sionismo, del capitalismo sfruttatore, in una base di sovversioni e complotti rivolti contro i popoli liberi dell’America Latina.

Migliaia e migliaia i morti provocati dalla famiglia Somoza, nelle carceri e nelle feroci repressioni per le strade. A rompere la catena dell’asservimento, saranno, nel 1979, i rivoluzionari di Daniel Ortega che, fregiatisi proprio del nome di “sandinisti“, e forti di un appoggio popolare vastissimo, accresciutosi dopo i tragici eventi del terremoto del 1972, costringeranno alla fuga Anastasio “Tachito“ Somoza (figlio del mandante dell’uccisione di Sandino) e volteranno pagina per più di dieci anni, con riforme radicali e rivolgimenti mai visti nel Paese. A contrastarli, come sempre, gli yanquis, per interposti collaborazionisti e terroristi locali. Nihil sub sole novi: il detto latino è vero, ma è tanto più vero pensando all’attualità e alla pregnanza del pensiero di Sandino, in un’America Latina ricca di fermenti e capace di darsi governi come quello di Chavez, di Evo Morales e di altri eredi dei libertadores.

1979: guerrigliero sandinista con la sua famiglia



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