venerdì 30 settembre 2016

Come i bolscevichi risolvettero il problema abitativo. Il miracolo di Leningrado, un caso di scuola (1917 – 1950).

REDAZIONE NOICOMUNISTI

Di Luca Baldelli



Leningrado, la vecchia San Pietroburgo, non è solo la Città eroica che ha retto uno degli assedi più terribili della storia, quello nazista, con centinaia di migliaia di morti, evacuati, feriti e dispersi, in uno scenario eguagliato forse soltanto dalle vicende spartane del III sec. a.C. No, Leningrado è anche il gelido, epico, affascinante teatro della Rivoluzione bolscevica del 1917, Rivoluzione che per prima ha liberato le masse operaie e contadine dall'oppressione capitalista e feudale. 

In quella splendida, antica città creata dal nulla per la ferrea volontà dello Zar Pietro, su paludi e naturali prolungamenti del Golfo di Finlandia, i bolscevichi, saliti al potere, dovettero subito confrontarsi con molteplici problemi, precipitato storico dell’arretratezza di un Paese sì dominato da secoli da un'élite di rapaci sfruttatori, sì immerso nelle secche di un sottosviluppo solo di quando in quando interrotto da isolotti di modernità, ma anche popolato, come pochi altri al mondo, da geni prodigiosi e talenti raffinatissimi. In questo singolare, intrigante prisma dialettico, storico, culturale e politico, i bolscevichi proiettarono la vivida luce del loro primato, rimodellando le sfaccettature, limando gli angoli e abolendo le forme anacronistiche, stantie ed ossificate di vecchi costrutti sociali ed economici che qualcuno, per suo interesse, riteneva eterni ed immutabili. 

E vennero la riforma agraria, le nazionalizzazioni delle industrie, con la promozione della più ampia partecipazione, del più profondo e consapevole apporto autogestionario da parte degli operai e dei lavoratori tutti (non sempre raggiunto, invero, ma costantemente fissato all'orizzonte come meta), il suffragio universale senza barriere di "genere" (le donne russe furono le prime a votare in Europa, se si escludono quelle del non più esistente Granducato di Finlandia, tra l’altro facente parte dell’Impero russo, laddove le suffragette britanniche ebbero la loro soddisfazione solo nel 1928). 

Non solo: i bolscevichi, in condizioni, le peggiori possibili ed immaginabili, stretti fra l’arretratezza e la povertà del patrimonio edilizio ereditato dal vecchio regime e fra le distruzioni della guerra civile scatenata dai reazionari interni e dagli imperialisti esterni, riuscirono, per un laicissimo miracolo della buona volontà, a risolvere il problema abitativo, facendo di Leningrado, fin dagli anni '20, la prima Città al mondo senza gente che dormiva sotto i ponti, sulle panchine, in falansteri simili a camere d’ospedale o in malsani scantinati. Ciò, mentre nel mondo capitalista le gente crepava di fame e si vedeva sfrattare anche da miseri tuguri. 

Come fu risolto il problema abitativo? 

Con una molteplicità di misure complementari e convergenti verso l’obiettivo stabilito, ossia quello di dare ad ognuno un tetto sopra il capo! 

Vediamo la situazione generale. Il punto di partenza, come abbiamo accennato, non era certo entusiasmante: il patrimonio abitativo non era certo enorme e quel poco che c’era era ripartito in maniera scandalosa. Basti pensare che, nel 1900, quando furono censiti 1.418.000 abitanti, si rilevò che 38.000 cittadini, appartenenti a privilegiate minoranze, avevano a disposizione, ciascuno, dai 30 ai 70 metri quadrati di area abitabile a testa. 

A fronte di ciò, 82.000 cittadini, tra i più derelitti, dovevano pigiarsi in spazi angusti, con meno di 2 metri quadrati a testa. In questo panorama, ben 11.376 appartamenti erano liberi, vuoti, cinici monumenti al più immorale degli sprechi, alla più cocente delle ingiustizie. C’era poi tutta una pletora di lavoratori che alloggiava in dormitori, convitti ecc. ... 

Ancora nel 1910, 63.089 persone alloggiavano in 8292 seminterrati, tra umidità, topi e altre gioiose amenità da campionario dell’orrore abitativo. Espansioni massicce di edificato non erano d'altronde pensabili, sia per le condizioni di guerra e mobilitazione permanente, egemoni dal 1917 al 1922, sia per i sottovalutatissimi e quasi mai menzionati (dalla storiografia e dagli studi urbanistici classici) ostacoli naturali, per molti versi insormontabili: un terreno paludoso, sabbioso, friabile, che solo lo Zar Pietro, con la sua ostinazione, poteva trasformare in una landa abitata, strappando al Golfo di Finlandia il suo naturale prolungamento. 

Che fare, allora, tanto per porre l’interrogativo del pragmatismo rivoluzionario di Lenin? 

Si cominciò con un’opera di censimento e ricognizione degli alloggi esistenti, a partire dagli antichi palazzi dell’aristocrazia e degli alti ceti, giù giù fino ai condomini più moderni e recenti. Squadre di operai e funzionari addetti computarono i metri quadrati disponibili, analizzarono scrupolosamente bisogni e possibilità legati ai vani, interrogarono famiglie e individui, per poi ripartire lo spazio nella maniera più equa possibile. 

Checché ne dica, delirando, la letteratura  anticomunista, nessuno che avesse una quantità giusta e tollerabile di metri quadrati a disposizione, rapportata alla condizione oggettiva presente, fu espropriato del diritto di continuare ad abitare i propri spazi. 

"Il potere sovietico, pur generalizzando la nazionalizzazione delle case dei grossi capitalisti – scrissero Bucharin e Preobrazhenskij ne "L’ABC del comunismo" - non ha alcun interesse a toccare le proprietà degli operai, impiegati e piccolo – borghesi". Si espropriarono solo e soltanto gli alloggi di individui e famiglie che fruivano di metri quadrati in visibile e smaccato eccesso, alla faccia dei senzatetto, degli inquilini di stamberghe e casupole e via elencando. Anche in quel caso, però, il nobile, o l’industriale, o l’intermediario, o la qualsivoglia figura borghese espropriata, se non decideva di andarsene o di darsi alla macchia contro il nuovo governo sovietico, non veniva cacciato via, spinto in strada. No, la superiore umanità dei bolscevichi risparmiava, a questi sfruttatori e parassiti, il destino che per secoli avevano riservato ai figli del popolo. Ognuno poteva conservare per sé un ambiente o anche più, all'interno della propria residenza.

Ogni Soviet, in tutto lo sterminato Paese del socialismo al potere, creò nel proprio seno una "divisione" speciale che si occupava del patrimonio abitativo e delle condizioni di alloggio della popolazione; non una burocrazia autoritaria e imperiosa, distaccata e fredda, ma una squadra di lavoratori, funzionari, ispettori che, ciascuno con il proprio ruolo, assumevano decisioni in forma collegiale e concertata, per il supremo obiettivo del bene comune. 

Gli affitti vennero calmierati e i fitti arretrati, molti dei quali vere e proprie pretese degne del peggior strozzino, vennero spesso annullati, non solo a Pietrogrado (la Città assumerà il nome di Leningrado dal 1924, dopo la morte del leader rivoluzionario, ma in tutte le Russie, in tutto l’estesissimo territorio posto sotto il controllo sovietico. Ovunque i proletari furono liberati dalla prigionia delle stamberghe, degli alloggi di fortuna, e trasferiti in palazzi ampi e maestosi, spesso di eccezionale pregio artistico e architettonico. 

I detrattori del socialismo hanno sempre sparso a piene mani dileggio e critica sulle coabitazioni di più famiglie in uno stesso appartamento, frequenti nei primi anni del potere sovietico e ridotte al minimo a partire già dagli anni '50 – '60, ma questi corifei senza pudore del marciume capitalista hanno dimenticato che chi prima era vissuto per decenni in catapecchie di 20 o 30 metri quadrati, senza acqua, luce, gas e locali salubri, grazie alla Grande Rivoluzione Socialista d’Ottobre varcò la soglia, assieme alla propria famiglia, di palazzi principeschi dalle volte arabescate e dalle scalee imponenti, con stanze ampie, soffitti elevati, ambienti ampi ed areati. 

Qui, per una famiglia tipo, coabitare, significò avere una grande cucina e una latrina in comune con altri individui o gruppi familiari, quando precedentemente la prima era un buco e la seconda un foro scavato in terra, mentre per il resto ogni nucleo familiare ebbe a disposizione, a seconda della consistenza numerica dei propri membri, due, tre o quattro stanze individuali, ricavate dall'equa divisione degli ambienti. 

I proletari alloggiarono quindi, grazie ai Soviet, in Palazzi nei quali, in occidente, solo la più pingue borghesia e i più insigni rampolli di blasonate famiglie potevano vivere o sperare di vivere. E lo fecero, nei primi anni, senza pagare alcun affitto, o pagando solo cifre simboliche. Vi fu anche chi, per esigenze di studio o di attività, per meriti guadagnati sul campo col suo lavoro a vantaggio della collettività, poté continuare ad abitare in spazi più grandi della media: non mancarono i casi di villette a un piano rimaste in proprietà ai loro legittimi (in quel caso) detentori, studiosi, intellettuali, militari, o divise con alcune famiglie lasciando ai vecchi proprietari la gran parte dello spazio disponibile. 

Anche il grande Bulgakov, nelle sue opere, fa cenno a questi episodi, si vedano "Cuore di cane" e "Il Maestro e Margherita". Tornando alla situazione di Pietrogrado, poi Leningrado, nel giro di poco tempo nessuno più, o quasi, abitò cantine, sottotetti, casupole cadenti e malsane. 

Alla primavera del 1918, i lavoratori poterono a ragione vantarsi di vivere ormai come mai avevano vissuto prima d’ora. Gli sconvolgimenti della guerra civile portarono, però, subito difficoltà e non vi fu tempo di cullarsi sugli allori. Visti i gravi problemi di approvvigionamento della città, con le truppe bianche che stringevano d’assedio i centri controllati dai bolscevichi e vi impedivano l’afflusso di derrate e merci, molti scelsero di andarsene nelle campagne o altrove, in contesti più tranquilli e meno esposti alla pressione controrivoluzionaria. 

Gli abitanti diminuirono da 2.500.000 nel 1917 a 750.000 circa nel 1920, quando il rigidissimo inverno costrinse tanta gente a utilizzare come legna, per riscaldarsi, anche vecchi e pregiati mobili. Nel 1921, quando la guerra civile si spense, con la vittoria schiacciante dei bolscevichi, sostenuti dalla quasi totalità della classe operaia e dalle masse contadine, queste ultime conquistate con i decreti sulla terra, diretti contro i latifondisti e la Chiesa, si rilevò che il 25% degli appartamenti esistenti a Pietrogrado erano vuoti. Mentre molte case abbandonate furono demolite, fu guadagnato dai ceti popolari ulteriore spazio sottratto a borghesi e nemici del popolo scappati, trasferitisi, posti sotto misure cautelari o condannati. Da notare il fatto che, almeno fino al 1925/26, molta della popolazione cittadina era fluttuante e molti nuclei familiari, fino al 30%, erano formati da un’unica persona: lavoratori avventizi, gente delle campagne che aspirava a guadagni supplementari, piccoli intermediari e sensali sopravvissuti al tramonto del capitalismo... Un universo variegato e per molti aspetti pittoresco, che durò finché durò la NEP. 

L’avvio della pianificazione quinquennale, a partire dal 1928, consentì di migliorare costantemente le condizioni di alloggio degli abitanti della città, ribattezzata Leningrado, soprattutto dal punto di vista qualitativo. I censimenti e le elaborazioni statistiche rivelano, dalla fine degli anni '20 e per tutti gli anni '30, un costante miglioramento delle forniture e delle dotazioni degli alloggi leningradesi: qui, dove era stata compiuta la rivoluzione copernicana del dare a ciascuno un tetto, a partire da un lascito storico di sicuro non incoraggiante, ora quel tetto diventava, per tutti e per ciascuno, sempre più comodo e confortevole. 

Non si dia calcolo a chi presenta indici di metri quadri pro – capite in calo: se infatti in alcuni annuari si può leggere che la superficie pro – capite abitabile (la "zhilaja ploschad", formata da tutte le stanze meno cucine, servizi, bagni, corridoi e ripostigli) scese da 8,5 metri quadrati nel 1927, a 5,8 metri quadrati nel 1935, c’è da tener presenti tuttavia alcuni punti fermi. 

Nello stesso periodo, la popolazione di Leningrado, in conseguenza del poderoso sviluppo industriale, crebbe a ritmo impetuoso da 1.700.000 a oltre 2.700.000 individui, per poi salire fino a quasi 3.000.000 alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale. 

Roma, che in quegli anni subì un aumento di popolazione di poco inferiore, con cifre assolute pari alla metà rispetto a quelle della "finestra sull'occidente", si riempì di casupole e baracche, nelle misere periferie ritratte col pennello del più vivo neorealismo da Manfredi in "Brutti, sporchi e cattivi". 

Leningrado, al contrario, non conobbe baracche e alloggiamenti precari se non quelli, del tutto provvisori, e oltremodo decorosi, destinati ai costruttori edili che tirarono su nuovi palazzi residenziali per i lavoratori dove si poteva, in un terreno angusto, ricavato con le unghie e con i denti da ardite bonifiche nel corso dei secoli e naturalmente svantaggiato nella conformazione. 

Inoltre, va ricordato che le cucine, i bagni e i ripostigli, tutti elementi urbanisticamente e civilmente considerati, in Urss, al di fuori dello spazio vitale sul quale calcolare l’affitto,  diventarono negli anni ’30 sempre più presenti, ampi e funzionali, mentre gli appartamenti individuali via via sostituirono quelli in coabitazione. 

E come tacere, poi, il grande sforzo volto a fornire, ad ogni alloggio, il gas necessario per cucinare e riscaldarsi?

I dati ci dicono che, nel corso degli anni ’30, già 23.200 appartamenti furono connessi alla rete del gas. Ciò equivale a dire, tenendo conto delle coabitazioni in alloggi con bagno e cucina in comune (il 70 – 80 %), che, a quell'epoca, già 200.000 persone circa, su più di 2.000.000, beneficiavano di questo modernissimo confort, confort di cui ancora oggi sono prive, nella nostra "progredita" e "civile" Italia, tante famiglie, costrette a ricorrere alle bombole. Il gas leningradese meriterebbe una trattazione a parte, per l’impegno, lo sforzo e la capacità dimostrati da tecnici e maestranze che, nel giro di 15 anni, a guerra finita, valorizzando gli scisti bituminosi della regione leningradese ed estone, lo porteranno praticamente in ogni alloggio. Nei Paesi capitalisti, Italia compresa, si arriverà allo stesso obiettivo, del tutto parzialmente, a macchia di leopardo, negli anni '70 - '80, e senza avere la difficoltà di far passare condotte e canali di distribuzione in un territorio gelato per gran parte dell’anno, con relative manutenzioni e migliorie. 

La Seconda Guerra Mondiale portò morte e distruzione a Leningrado, nei 900 memorabili giorni dell’assedio nazifascista, poi spezzato dall'eroismo e dal valore dell’Armata Rossa. Quei 900 giorni significarono anche, per il patrimonio abitativo della Città, un calvario senza precedenti: 

  • il 19,7% del fondo abitativo totale andò distrutto (3,3 milioni di metri quadrati di spazio abitabile);  
  • il 13,2% dello stesso fondo subì gravi danneggiamenti (2,2 milioni di metri quadrati di spazio abitabile). 
  • alla fine del conflitto, il 35% delle case necessitavano di riparazioni alle pareti ed alle intercapedini; 
  • l’80% presentava vetrate rovinate o distrutte; 
  • il 72% aveva tetti sfondati o gravemente danneggiati; 
  • l’85% mostrava facciate rovinate. 
Fognature, reti del riscaldamento, ascensori, caldaie, reti elettriche... Tutto danneggiato, fuori uso o logorato. Il compito della ricostruzione si presentò, davanti ai leningradesi, non facile né difficile, semplicemente titanico. E fu scritta, con ardore e abnegazione, un’altra pagina eroica. Mentre i fogliacci delle varie borghesie capitaliste raccontavano di gente che viveva nei solai, nelle cantine, nei magazzini, senza mai spiegare mai perché ciò accadeva, senza mai menzionare le distruzioni apportate dai nazifascisti, i leningradesi ricostruivano la loro città, più bella e radiosa di prima. In pochi anni, forti delle esperienze post – rivoluzionarie, vennero eliminati del tutto, di nuovo, ricoveri di fortuna, magazzini uso abitazione, cantine – dormitorio. 

Una ventina di trust edili, agili ed operativi, garantirono un nuovo miracolo, compiuto senza aiuti dall'estero e senza i denari del Piano Marshall (a proposito di "ricostruzioni" mitizzate, o non opportunamente contestualizzate...). 

Le cifre del periodo 1945/1950 sono, a tal proposito, impressionanti:

  • 791.000 metri quadrati di riparazioni capitali effettuate;
  • 28.660 palazzi residenziali sottoposti a riparazioni selettive, di alta qualità, con professionalità scelte;
  • 1.944.000 metri quadrati di ambienti fatiscenti ripristinati e risanati;
  • 13.057.000 metri quadrati di tetti riparati;
  • 4.425.000 metri quadrati di facciate riparate e ridipinte;
  • sostituzioni di sistemi di approvvigionamento idrico e di reti fognarie, con espansione del numero degli alloggi direttamente serviti, in 5003 palazzi residenziali; 
  • 1315 ascensori riparati e ripristinati; 
  • 335 caldaie rimesse in funzione;
  • 3.826.000 metri quadrati di scale e pianerottoli riparati e ricostruiti;
  • 1.153.000 metri quadrati di marciapiedi realizzati, cortili risanati, strade di servizio lastricate;
  • 369.000 alberi ed arbusti piantati nei cortili condominiali. 

Numeri, questi, che la dicono lunga sulla superiorità del sistema socialista, anche rispetto ad una problematica, come quella degli alloggi, che ancora attanaglia e assilla milioni e milioni di persone nel mondo, schiacciate dalla logica del profitto di pochi speculatori e costrette ad abitare in tuguri e slum per la maggior gloria degli sfruttatori. 

L’esperienza di Leningrado (e, in senso estensivo, di tutta l’Urss) ha dimostrato che, anche in questo ambito, un altro mondo è non solo auspicabile, ma anche possibile, purché si abbia il coraggio e l’onestà intellettuale di riconoscere la necessità storica di rompere non solo col capitalismo, ma pure col riformismo all'acqua di rose. 

Riferimenti:

Pavel Nikonov: "Storia del fondo abitativo di San Pietroburgo" (relazione del 1994), in russo, online: http://nikonovpn.spb.ru/?p=1059#3

F. Engels : "La questione delle abitazioni", Edizioni Rinascita, 1950

N. Bukharin – E. Preobrazhenskij: "L’ABC del comunismo" (online, http://digilander.libero.it/rivoluzionecom/Testimarxisti/abcpseconda.html)

Vieri Quilici: "Città russa e città sovietica" (Mazzotta, Milano, 1976)

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