giovedì 2 gennaio 2020


Quando Guiboud Ribaud visitò le prigioni sovietiche.

Di Luca Baldelli

La denigrazione e la demonizzazione di Gulag e prigioni sovietiche ha toccato vette inarrivabili, che solo una paziente opera di controinformazione riesce in parte a contrastare, in presenza di un’assoluta asimmetria di mezzi e possibilità per farsi sentire ed ottenere tribune adeguate onde consentire all’opinione pubblica di farsi la sua idea, libera e senza pregiudizi, nella verità e non in odio ed in contrasto ad essa. Per decenni si è parlato di milioni, decine di milioni di Sovietici finiti nelle fauci mai sazie di Gulag danteschi e prigioni lovercraftiane. Un esercito di senza nome, di schiavi, di iloti spacciati per veri dalla storiografia capitalista e borghese. Son bastati pochi storici, per giunta spesso anche anticomunisti, per vedere che nei documenti degli archivi sovietici, peraltro apertamente manipolati con l’avvento del gorbaciovismo e, soprattutto, col crollo dell’URSS, era nascosta una verità ben diversa: meno detenuti che nei mitici States e nessun regime concentrazionario da Babilonia dei tempi biblici o da hitlerismo conclamato. L’impossibile equazione tra “stalinismo” e nazionalsocialismo, ancora una volta appariva per quello che era e stavolta col conforto di numeri inoppugnabili: una vile impostura! Zemskov ed altri storici, tutti anticomunisti, liberal – democratici o indipendenti, si incaricavano di dimostrare il contrario di quel che invece sostenevano (e sostengono) trockisti e finti comunisti revisionisti.
Sarebbe bastato leggere fonti coeve, e tutte OCCIDENTALI, del resto, per rendersi conto che la storia era ben altra.
Una di queste fonti riguardava un noto avvocato francese, Guiboud Ribaud. Costui, nel 1927, espresse il desiderio di far visita alle prigioni dell’URSS, per rendersi conto di persona della situazione. Qualsiasi governo o regime che avesse avuto interesse a nascondere qualcosa, gli avrebbe o chiuso le porte o aperte solo quelle preventivamente mondate da catenacci lordi di sangue e sudore. Nulla di tutto ciò avvenne per il principe del foro francese: egli poté avere subito, telefonicamente, un elenco di centinaia di prigioni dal Commissariato DEL popolo per la giustizia della Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa e poté scegliere tutte quelle che più gli interessavano. Varcate le soglie delle prigioni prescelte, trovò un mondo per lui sorprendente: non galeotti con palle a calcagna logore e stremate, ma persone di più nazionalità che camminavano per i corridoi, sorseggiavano del tè, conversavano serenamente. Nessun idillio, ma nemmeno l’inferno da tanti millantato. Ne uscì un’opera: “Ou va la Russie?” ( Parigi 1927), con un bel capitolo, il SETTIMO, dedicato ai penitenziari.
L’opera era recensita e prefata dal grande Henri Barbusse (1873-1935), sincero amico dell’URSS e grande intellettuale francese, conterraneo di Guiboud-Ribaud.

Henri Barbusse

L’aspetto più interessante, o comunque uno dei più significativi del libro, è senza dubbio la narrazione della sorpresa derivante dal vedere individui che, condannati alla pena capitale per delitti e reati politici, si erano visti le pene drasticamente ridotte per merito della dialettica processuale, aspetto questo sempre negato dai detrattori dell’URSS, per i quali nemmeno gli avvocati sarebbero esistiti nella grande Unione dei Soviet. Mentre i Tribunali fascisti esiliavano e condannavano a morte, in Urss si redimeva e si lavorava per la correzione ed il recupero sociale del reo. L’avvocato francese, venuto in Urss con sincera voglia di capire, ma anche con in testa tanti motivi ricorrenti della propaganda antisovietica, se ne tornò al suo Paese completamente convinto della verità che aveva visto e che era, per sé stessa, indiscutibile. Egli si attirò l’odio e l’ostilità di tanti bugiardi e mediocri, ma la stima di tutti gli uomini sinceramente obiettivi, democratici, senza paraocchi. Dopo di lui, sarà la volta di Lenka Von Koerber e di tanti altri scrittori, studiosi, sociologi, i quali visiteranno le carceri sovietiche, trovando dinanzi ai loro occhi prigionieri più liberi dei cittadini liberi dei Paesi capitalisti, i quali lavoravano percependo il salario degli operai liberi e godendo di condizioni premiali assolutamente invidiabili. M. S. Callcott, negli USA, riuscirà a mandare alle stampe nel 1935 “Russian Justice“, nel quale parlerà di questo e di altri aspetti, mettendo in rilievo, senza apologie e senza incensi, la superiore (oggettivamente) realtà della civiltà sovietica.

Lenka von Koerber 


Una civiltà dove l’ingegner Ramzin, condannato nel processo del PARTITO INDUSTRIALE, non fu tenuto sempre in prigione, ma portato nell’aula dove dava lezioni, da solo o sotto scorta.
In quegli stessi anni, gioverà ricordarlo, i detenuti dei Paesi capitalisti e fascisti, segnatamente i politici, languivano tra la fame e la tisi nelle galere di sterminio alle quali i fantocci politici del grande capitale li inviavano.

FONTI

Sidney e Beatrice Webb, Il comunismo sovietico: una nuova civiltà, Torino, Einaudi, 1950
P. Guiboud Rubaud, Ou va la Russie,  Paris, Editions sociales internationales, 1928
Lenka von Koerber, Soviet Russia fights crime, London, E.P. Dutton and Co, 1935
Mary Stevenson Callcott,  Russian Justice, New York, Macmillan, 1935


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