mercoledì 12 luglio 2017

Un Villaggio popolato di meraviglie. Per non dimenticare una pietra miliare del cinema tra impegno, satira, comicità. sogno e disincanto

REDAZIONE NOICOMUNISTI

Di LUCA BALDELLI

Come ogni mio coetaneo, sono anch’io cresciuto con i film di Paolo Villaggio, in modo particolare con la carrellata seriale dei vari “Fantozzi”. Una carrellata (non sembri l’afflato che mi muove iperbolico ed altisonante) non solo cinematografica, ma umana, esistenziale, filosofica e, sì, cari amici, anche politica. Sì, perché Villaggio sapeva andare oltre i recinti della celluloide da svago, da evasione, per sorvolare sempre, con maestria, delicatezza, tatto e capacità psicagogica, le vette dell’analisi sociale, della denuncia civile, della contestazione.

Cos’è stato e cos’è il suo “Fantozzi”, visto ed amato da più generazioni, se non un capolavoro di indagine sociale, di icastica potenza espressiva ed evocativa capace di restituirci il quadro di una società connotata da oppressione, grigiore, routine e alienazione?

L’anonimo, sventurato ragioniere, non era forse il simbolo/cavia/parafulmine dei rapporti di classe, delle meschinità, delle bassezze della società capitalistico – borghese? Le sorti del disgraziato contabile con basco e “Bianchina”, infatti, erano, e oggi sono ancor di più, quelle di tanti, tantissimi lavoratori immessi nel tritacarne di un mercato del lavoro che ha riportato in auge, grazie ad una politica asservita al grande capitale speculativo, rapporti schiavili che si pensava soppressi nel XIX secolo. Nell’era del capitalismo fordista, del compromesso keynesiano, dell’ottimismo positivista e sviluppista, a qualcuno, non attento nel cogliere le pieghe del reale e non pronto ad accettare la lucida previsione di tendenze che già incubavano o erano strutturalmente proprie del gigantismo industriale, Villaggio apparve esagerato, pessimista, oltremisura tranciante. Oggi che quel quadro è svanito, portato al macero e triturato fin quasi nella più recondita fibra dal capitalismo mondialista distruttore di diritti, garanzie e tutele, l’affresco fantozziano, con l’acquario dei dipendenti, i Megadirettori Arcangeli seraficamente feroci, i ruffiani professionali alla Calboni, le umiliazioni e gli affronti grotteschi alla dignità, appare decisamente aderente al reale, con tutte le “cartilagini” espressive e scenografiche, al netto della “caricatura” fisiologicamente propria dell’impianto comico – satirico.


Fantozzi” come metafora dell’oppressione sociale spinta ai livelli più agghiaccianti, del carattere olistico, totalizzante, soffocante e “faraonico” di un sistema di produzione che ieri era almeno mitigato da compromessi di segno progressista, da conquiste ed avanzamenti e che oggi, invece, ha rinunciato quasi del tutto alla produzione stessa, a stucchi, merletti e decori, solo per mostrare il suo vero volto tirannico, freddamente tecnologico, condito con anglofonismi e suoni gutturali mirati a convincerci, in un tragicomico mantra che si rovescia ogni volta nel suo opposto, che non esistono più padroni e dipendenti. Un sistema nel quale ogni ribellione, ogni sasso tirato contro i vetri della direzione, ogni piano concepito con i Folagra di turno, pare destinato al fallimento, eppure si configura implicitamente come necessario nel momento in cui il “Megadirettore Arcangelo” viene ritratto in tutta la sua ineffabile aurea di demoniaca santità.


Grande Villaggio! Verista della comicità, neorealista dell’ironia amara e assieme allucinato, celestiale “Pierrot lunaire” dell’arte più raffinata, eroica e anzi titanica: quella di sopravvivere. Altrimenti perché Fellini, esigentissimo e maniacalmente attento ai personaggi, alle trame, all’intima coerenza del costrutto narrativo, avrebbe scelto proprio la sua maschera potente, a tutto tondo, per il troppo spesso dimenticato “Prefetto Gonnella” de “La Voce della Luna”? E’ stato forse un caso che il mai troppo compianto Monicelli, sublime alchimista di quel “solve et coagula” che scioglieva e riannodava ogni volta risata e pianto, caustica comicità e amarezza sgorgante dalle sorgenti di un introvabile “ubi consistam”, abbia selezionato Villaggio per il ruolo del vecchio pugile disperatamente attaccato al vortice dell’esistenza, tenacemente aggrappato all’ancora dell’autoinganno, in “Cari fottutissimi amici”? No, non sono state, queste, estemporanee ed accidentali casualità da cammeo; non sono state, queste, scelte di ripiego, nell’anima e nella mente di due registi che, prima di essere tali, erano, come Manzoni e Shakespeare, come Dostoevskij e Joyce, profondi conoscitori dell’animo umano.

“Fantozzi”, il suo meno felice emulo “Fracchia”, il Giovanni Bonfiglio di “Sistemo l’America e torno”, il Prefetto Gonnella de “La voce della luna”, il Ginepro Parodi detto “Dieci” di “Cari, fottutissimi amici”, hanno rappresentato e rappresenteranno sempre, plasticamente, la realtà dell’oppressione, dell’amarezza, dell’autoinganno e assieme del disincanto.

Oggi si ride dietro a pseudocomici che, al di là di qualche sgangherato calemboure, di scontate e logore omofonie, di iperboli ogni volta frananti nella tensione più bassa del diapason lessicale – espressivo, nulla hanno da offrire ad un pubblico che, del resto, poco cerca e nulla indaga, o che, per dirla con le parole del grande Sordi, non sa più ridere. E sì, perché solo una società dove l’impegno e la lotta dominano, può SAPER RIDERE; la comicità è efficace proprio perché scioglie e nobilita i nodi dell’impegno e della tensione verso un mondo migliore, stringendoli in nuovi afflati catartici; l’ironia, la satira sono tali solo a partire da un contesto rispetto al quale, in assoluto e di primo acchito, c’è ben poco da ridere, e del quale si è consapevoli. Oggi in tanti, troppi, vivono in un inferno di oppressione, spersonalizzazione, sfruttamento, e pensano di uscirne con le battutine da adolescenti cellulare – dipendenti… Questa si chiama alienazione, non comicità e ancor meno satira. Ricordare Villaggio significa, allora, oggi più che mai, anche educare alla risata, farla uscire dai gorghi perversi del suono isterico – meccanico dell’immediatezza malata, per innalzarla a espressione reale, compiuta e matura di consapevolezza, riflessione, analisi. Grazie, Paolo, per tutto quello che ci hai donato e per il messaggio che hai lasciato! Nell’ereditarlo e custodirlo, mi piace concludere con la frase, da te pronunciata, che chiosava la fine di alcuni tuoi film : “E si ricomincia!”.

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