lunedì 21 ottobre 2013

La decrescita felice è realizzabile nel capitalismo?

REDAZIONE NOICOMUNISTI

Articolo di Davide Spagnoli pubblicato su: 
http://www.istitutogramsciforli.it/wordpress/?p=1144



Finalmente un buon cappuccino! Ma proprio buono: con il giusto equilibrio di schiuma, compattezza e temperatura del latte.

Mi ero fermato in quel bar, in cui non avevo mai messo piede prima, come tappa della passeggiata che stavo facendo, nonostante il diluvio che già da qualche giorno, a tratti, assediava Forlì.
Il cappuccino era straordinario e il bar, forse proprio per quella ragione, era affollato e non ho potuto fare a meno di ascoltare la conversazione dei miei vicini di bancone.
Un ragazzo e una ragazza, immagino universitari, stavano discutendo sul tema della decrescita e lei era piuttosto dubbiosa sulla possibilità di realizzare una cosa del genere.
Non sono rimasto ad origliare a lungo, un po’ perché il cellulare lampeggiava e un po’ perché era imbarazzante entrare non invitato nel privato di quei due ragazzi, ma una volta a casa ho deciso di chiedere alla rete cosa fosse la decrescita, che poi ho imparato essere aggettivata con un felice, decrescita felice…
Ma ho condiviso le obiezioni della ragazza ed anch’io mi chiedo se sia possibile realizzarla sul serio la decrescita felice, oltretutto in un sistema i cui attori sono i capitalisti.
Ma chi è un capitalista?
Quale criterio possiamo usare per definirlo?
“Chi detiene e investe grandi capitali privati in attività economiche produttive”, così mi dice il dizionario on line del Corriere della Sera.
Ma quel “grandi capitali” è decisamente vago: grandi quanto?
Che so, c’è una soglia limite oltrepassata la quale si entra nel novero dei capitalisti ed un centesimo prima non lo si è ancora?
È un centesimo che fa la differenza? Inoltre, individuata una soglia limite, si deve tener conto della svalutazione?
È una definizione troppo vaga. E allora come potremmo fare?
Beh, quello che posso vedere è che c’è una grande differenza di atteggiamento, da parte mia e da parte della stragrande maggioranza di quanti conosco, nei confronti del denaro.
Credo che noi tutti lo usiamo per soddisfare i nostri bisogni, eppure ci sono delle istituzioni, ma anche delle persone, che hanno come fine il profitto in quanto tale.
Beh, adesso mi vengono in mente le corporation, ossia le multinazionali, le banche e qualche raro caso di persone realmente feticiste del denaro. Ma il commerciante, l’artigiano, il contadino, il piccolo ed anche il medio imprenditore lavorano, spesso come dei muli, per vivere agiatamente, e quindi, anche per loro come per noi, il denaro è solo un mezzo per vivere meglio e non il fine in se stesso.
Il fine del profitto per il profitto? Ma che senso ha?
Per noi nessuno, ma per il capitalista ne ha tanto, anzi è la sua ragione di vita.
Beh, questo allora significa che tra noi e il capitalista c’è un contrasto di fondo: per noi il fine è la soddisfazione dei bisogni, per lui è il profitto.
La controprova?
In questi anni molti imprenditori, a causa della crisi e dell’impossibilità di evitare il licenziamento, e quindi la messa in crisi dei propri dipendenti e delle loro famiglie, si sono suicidati.
Non ho mai avuto notizia di una cosa del genere da parte di banche e corporation. Mai.
Non solo. Se si guarda bene a come agiscono le banche e le corporation si vede chiaramente che a loro delle persone non importa proprio niente: il loro unico fine è il profitto.
Beh, questa definizione mi sembra decisamente meno vaga di quella del Corriere.
Ma se il fine del capitalista è il profitto è del tutto evidente che il suo obiettivo sarà allora quello di realizzare quanto più guadagno può.
Ma come si può fare in regime di libero mercato? Attenzione: il libero mercato in questione è quello idealtipico, un mercato ideale e perfetto, senza vincoli o costrizioni, insomma il mercato ideale, il miglior ambiente in cui possa agire il capitalista.
Dunque, per ottenere il massimo profitto, il capitalista dovrebbe essere in regime di monopolio ed invece…
Beh, se si considera il mercato, in realtà è possibile essere monopolista, certo non per sempre, ma per un certo periodo di tempo sì.
Il mercato, al contrario di quanto comunemente si ritiene, non è tanto un luogo fisico, ma è il mercato dei bisogni costantemente ampliato proprio dal capitalismo.
Se il capitalista detiene il brevetto per la produzione di un certo bene, in grado di soddisfare un certo bisogno, allora agirà in regime di monopolio di fatto, perché i concorrenti, pure presenti sul mercato, non hanno ancora acquisito la tecnologia sufficiente per produrre lo stesso bene, con qualità pari se non superiore, ad un prezzo inferiore e quindi per conquistare loro una posizione di monopolio di fatto.
Ma presto o tardi la concorrenza sarà in grado di realizzare beni ad un prezzo inferiore.
Breve digressione.
Il capitalismo abbassa costantemente i prezzi di produzione dei beni perché meccanizza la produzione, ossia, sostituisce l’uomo con le macchine, il quale viene costantemente espulso dal mercato del lavoro.
Torniamo al nostro capitalista.
Visto che la situazione è che la concorrenza è ora in grado di sostituire il nostro nel monopolio, che scelte può fare il capitalista per restare “in sella”?
Può investire in tecnologia per abbassare sempre più i costi di produzione, oppure può comprimere il salario dei lavoratori e anche in questo caso, nel breve periodo, l’effetto è una riduzione sensibile dei costi.
Ma in questo meccanismo è presente anche un bug, un ospite decisamente indesiderato: nonostante gli sforzi fatti, la percentuale dei profitti tende inesorabilmente a calare. E del resto è del tutto evidente: se prima la torta se la pappava uno solo, in seguito, spartirsela con altri implica inesorabilmente che le fette siano sempre più piccole.
A questo punto, però, l’unica scelta possibile, grazie alla tecnologia, è aprire un altro mercato dei bisogni...ed il ciclo si ripete.
Oltre a queste considerazioni c’è da tenere presente che i presidenti dei consigli di amministrazione delle corporation e delle banche hanno un orizzonte temporale molto breve: il bilancio trimestrale. La loro unica preoccupazione è fare profitti perché il bilancio trimestrale sia positivo per loro stessi e gli azionisti.
Con un orizzonte temporale di tre mesi è molto difficile che i CEO (Chief of Executive Office, Presidente del Consiglio d’amministrazione) possano preoccuparsi di quanto può accadere tra vent’anni, ma anche solo tra sei mesi, perché il loro time limit è a tre mesi di distanza.
Quello che la decrescita felice chiede è che ci sia una programmazione che nell’arco di qualche anno ci porti ad essere, secondo i suoi sostenitori, tutti più felici... mi pare invece che, nel capitalismo, le condizioni per una tale impresa proprio non ci siano.
Mi sa che le obiezioni della ragazza fossero fondate…



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