Di Luca Baldelli
Tra la fine degli anni ’40 e l’inizio dei ’50, nutriti gruppi di militanti politici, sindacalisti, scienziati, medici, artisti, filosofi, e persino religiosi, si recarono in URSS, nel quadro di viaggi di solidarietà, conoscenza ed approfondimento della complessa realtà sovietica. Varie furono le testimonianze raccolte nell'ambito dell’editoria legata al movimento operaio: di certo, una delle più significative “pietre miliari” è rappresentata dal libro “Noi siamo stati nell’Urss”, stampato dalla casa editrice Macchia nella collana “Mondo nuovo”, curata dall’ Associazione Italia – Urss. Tale collana si fregiò di titoli assai interessanti: solo per citarne alcuni, “America” di Ilja Ehrenburg, “Nuove vie alla biologia” di T.D. Lysenko, “Miciurin – Lysenko – Burbank trasformatori della natura” di A. Molodcikov. Accanto a tali testi, di rilevante importanza sia per la conoscenza della realtà del mondo capitalista che per la piena comprensione dei traguardi raggiunti dalla scienza e dalla cultura sovietiche, “Noi siamo stati nell'URSS” brilla ancora oggi per l’onestà intellettuale delle sue voci narranti, per il puntuale e preciso corredo di dati e riferimenti che, allora, contribuirono a rintuzzare e smentire le calunnie della propaganda antisovietica e che, ai nostri giorni, rappresentano un ausilio fondamentale, attualissimo, per demolire le fragili, mendaci eppur persistenti basi della storiografia apologetica del sistema borghese, la quale pretende di dipingere settanta e più anni di storia dell'Urss come un coacervo di errori, fallimenti o, peggio, crimini. Ci sembra giusto trattare – e lo faremo – una per una le testimonianze contenute nel testo in questione; cominciamo, per ora, dal racconto di un eccelso artista, epico vate istoriante su tela e non solo l’epopea del movimento operaio, contadino e comunista: Renato Guttuso. Classe 1911 (la sua nascita fu però denunciata solo nel 1912, per contrasti insanabili fra i suoi genitori, di orientamento liberale e progressista, e l’Amministrazione comunale di Bagheria), Guttuso, dopo un’iniziale militanza giovanile nei GUF (Gruppi Universitari Fascisti), fucine, in modo solo apparentemente paradossale, di talenti quasi tutti insofferenti nei confronti del fascismo regime, e quasi tutti futuri antifascisti, si iscrive al PCd’I clandestino nel 1940, assumendo su di sé tutti i rischi di una militanza cospirativa ferocemente combattuta dal regime.
Renato Guttuso |
A determinare tale svolta, una progressiva ma inarrestabile presa di coscienza rispetto alla reale situazione dell’Italia e del mondo, agevolata dalla conoscenza, a Roma (Città nella quale Guttuso si era trasferito nel 1937), di tutto un milieu artistico ed intellettuale ostile al fascismo, alla sua retorica insopportabile, al suo carattere guerrafondaio, non meno che al novecentismo, inteso come corrente culturale incarnante lo spirito di “ordine” e “disciplina” elevati a sistema, con contestuale ripudio reazionario della valenza positiva delle avanguardie e l’esaltazione, viceversa, dei loro contenuti più dozzinali e corrivi. Ad animare i fermenti, in questo stimolante crogiolo di spiriti liberi ed insubordinati, sono nomi come quelli di Mario Mafai, padre di quella che diverrà la nota giornalista Miriam e convinto militante comunista nel dopoguerra; Marino Mazzacurati, il quale sarà autore, con l’architetto Lusignoli, del “Monumento al partigiano” di Parma (1954-56) e di quello dedicato alle Quattro Giornate a Napoli; Toti Scialoja, pittore, poeta e scrittore, funambolo del pennello e della parola, che coniuga fede cattolica e militanza progressista; Antonello Trombadori, giovane critico d’arte, effervescente ed incontenibile figlio del pittore Francesco, nonché futuro elemento di punta del PCI, parlamentare per anni ed anni.
Grazie a questi contatti, Guttuso matura dunque compiutamente la scelta antifascista, che lo espone a seri pericoli e minacce, a tal punto che l’artista è costretto a lasciare la Capitale per trasferirsi a Genova, centro nel quale prosegue nelle sue creazioni.
Con la vittoria della Resistenza, la liberazione del Paese dal giogo nazifascista, l’avvento della Repubblica, Guttuso riprende il suo posto in piena libertà nelle fila del rinnovato universo culturale italiano, sposando nella maniera più appassionata e vibrante ispirazione e militanza, impegno per la diffusione e divulgazione del Bello, per il suo simposio artistico con il desiderio di riscatto delle masse oppresse. Nel febbraio del 1948 è tra i fondatori dell’ Alleanza per la difesa della cultura, il cui manifesto, pubblicato su “L’Unità” del 21 febbraio 1948, costituisce una prova di forte consapevolezza del compito dell’intellettuale progressista nell’Italia di allora:
“E’ ora – vi si legge - che gli strumenti e i mezzi di espressione della cultura vengano sottratti all’arbitrio di interessi e di forze estranee. Solo una solidarietà organizzata delle forze della cultura con le aspirazioni e le energie di tutto il popolo può far sì che la voce dell’intelligenza riacquisti la sua autorità e la sua risonanza nel Paese:
- per una cultura nazionale che, nella tradizione italiana, si apra ad un sincero e spregiudicato scambio con quelle delle altre nazioni, ma rigetti ogni invadenza ed esclusivismo di merci, straniere ad ogni cultura;
- per la libertà della cultura contro ogni nuovo e rinascente tentativo di adescamento, di corruzione e di soffocamento burocratico;
- per la democrazia della cultura, che aperta al popolo, dalla scuola al libro al teatro, ne esprima la coscienza e le aspirazioni” (1)
I funerali di Togliatti di Renato Guttuso |
In tanti, in quel cruciale 1948, firmano, con Guttuso, a difesa della dignità e dello spessore della cultura: intellettuali di ogni tendenza e di diverse sensibilità, ma tutti uniti dal rifiuto dell’invadente colonialismo culturale americano, coi suoi sottoprodotti, e della cappa di conformismo, oleografia e menzogna creata dalla Dc al potere, specie dalla sua ala più reazionaria, che sarà capace di denunciare ed esecrare anche un capolavoro quale “Umberto D”, fedele ritratto delle ingiustizie e delle miserie dell’Italia postbellica, come un film disfattista e di “pessimo servigio alla sua Patria” (2). Se l’Alleanza per la difesa della cultura non è, a dispetto di quanto asserito dalla storiografia reazionaria e borghese, una sterile “cinghia di trasmissione” del PCI e del FRONTE POPOLARE (formazione unitaria del PCI e del PSI presentatasi all'epica tornata elettorale del 1948), nondimeno in essa i militanti comunisti e socialisti, o comunque riconducibili a quelle aree, senza impegnare altri di matrice liberale, radicale, cattolico-democratica o indipendente, bensì nel totale rispetto delle loro convinzioni e posizioni, guardano giustamente all'URSS come faro di libertà, emancipazione, fucina culturale. Guttuso, che tra l’altro disegna anche lo storico simbolo del PCI, è in testa a questa schiera e, tra la fine degli anni ‘40 e l’inizio degli anni ’50, si reca in Urss: l’incontro con la realtà del primo Paese con gli operai ed i contadini al potere è oltremodo positivo e foriero, per l’artista, di nuove impressioni, fecondi suggerimenti, vivaci stimoli. Egli ne riferisce, come abbiamo scritto, in un capitolo di “Noi siamo stati nell’URSS” dal titolo “Felice incontro con la vita e la cultura sovietica”.
Vita e cultura: un binomio per Guttuso indissolubile, inscindibile; già in questo si coglie appieno la sua coscienza militante. Egli traccia subito una netta differenziazione tra i viaggi nell'emisfero capitalistico – borghese e quelli nell'emisfero socialista:
“Il mondo capitalista – scrive – è pieno di sfumature tutte derivanti dal principio dello sfruttamento dell’uomo sull'uomo, sostanzialmente uguale in tutti i Paesi a struttura capitalistica. Sfumature, accenti, toni che debbono essere compresi nella loro realtà se non si vuole dare un giudizio di superficie. Il viaggiatore, per capire qualcosa del paese in cui va, dovrà rendersi conto di tante cose, oltre che dei costumi e dei caratteri particolari, egli dovrà rendersi conto del maggiore o minore indice di disoccupazione, della maggiore o minore diffusione della prostituzione, del maggiore o minore grado di aggressività degli sfruttatori, della maggiore o minore violenza dell’odio di razza, ecc… Per tutto questo ci vuole tempo. Ma quando il viaggiatore arriva in terra sovietica non vede un’altra faccia dello stesso prisma di ingiustizia e di sciagure, vede invece un prisma nuovo, ricco di infinite facce, ma limpido ed aperto allo sguardo dell’uomo che dei suoi occhi e della sua ragione si serve secondo l’onestà e la coscienza. Qui non c’è bisogno di troppo tempo per capire che non c’è lo sfruttamento capitalistico, che non c’è disoccupazione, che non c’è prostituzione, che non c’è odio di razza”.
Ecco dunque che lo sguardo intuitivo e speculativo dell’uomo di cultura, del militante, coglie un’indubbia evidenza, che è foriera di tante altre conseguenze e situazioni le quali, a cascata, originano proprio dal carattere socialista dello Stato e dall’assenza di ogni struttura e sovrastruttura capitalistico – borghese. In Urss regna un umanesimo rivoluzionario, che vibra possente nelle corde di Guttuso, e che pervade ogni aspetto della vita associata, aprendo una porta alla speranza delle masse oppresse di tutto il mondo. Per l’artista, si tratta dell’ ambiente migliore che egli possa desiderare, perché lo libera da ogni condizionamento economico e da ogni distorsione degradante dei “gusti” e delle “mode” dal capitalismo determinati:
“Nella vita e nella società sovietica – scrive l’artista – ogni uomo trova gli elementi utili alla soluzione dei suoi propri problemi, oltre alla soluzione dei problemi generali che riguardano la vita degli uomini. Tutti sanno quanti e quali sono i problemi di un uomo di cultura nei paesi a struttura capitalistica (Quando parlo di ‘uomini di cultura’ mi riferisco a coloro che della cultura hanno una concezione attiva ed umana, non agli snob dei vari specialismi, e non agli amici della morte, della corruzione, della sfiducia). E quanti e quali problemi si presentino oggi ad un pittore: come la funzione dell’artista sia stata dalla società borghese respinta ai margini, annientata”.
In Urss, Guttuso giunge alla piena consapevolezza di quanto profondo sia il ruolo della cultura, tutta, come fronte di lotta tra socialismo e capitalismo e quanto sia, per il potere borghese, essenziale, vitale, tenere le briglie del mondo della cultura, per procedere, a riverbero e rimando, sul condizionamento e sulla propulsione della struttura economica:
“là – si legge nelle sue pagine – ho capito perché uno dei fronti di lotta più duri è quello della cultura. E perché l’argomento della cultura è per i nemici del socialismo l’argomento principale”.
Colpite i Bianchi con il cuneo rosso di El Lissitzky |
Guttuso mette in luce, con molta acutezza, come, subito dopo la Rivoluzione d’Ottobre, vi fosse, tra i poeti, gli scrittori, i cineasti, gli artisti in genere dell’occidente, una forte fascinazione per il mito rivoluzionario bolscevico, per la sua epopea ed i suoi protagonisti nel campo culturale e creativo. Egli poggia le sue considerazioni su dati di fatto: il suprematismo di El Lissitzky e Malevic, con le sue influenze e gli apporti di Tatlin, Larionov ed altri ancora; il costruttivismo di Rodchenko, Gabo, Ginzburg; la poesia di Majakovskij, Pasternak, Bloch e di altri ancora: tutto questo ribollente catino politico, umano e culturale, che in terra di Russia e in Urss poi trovò la sua arena, influenzò non poco i futuristi, i dadaisti e tutte quelle avanguardie che, come vulcani, specie nei primissimi anni ’20 eruttavano lava creatrice quasi in ogni parte dell’Europa occidentale, da quella ex asburgica e mitteleuropea fino a quella latina e mediterranea. Qual era, però, la ragione profonda di una “moda” così penetrante, invasiva e pervasiva? Guttuso è quanto mai profondo e calzante nel rispondere a tale complesso interrogativo, nella misura in cui non solo ribadisce e sottolinea la differenza tra “intellettualisti”, sensibili al potere suadente dell’arte in sé e per sé, e uomini di cultura, preoccupati sempre di coniugare sperimentazione artistica e consapevole militanza politica e sociale, ma, allargando il campo di osservazione e di indagine, coglie anche un elemento storico – culturale innegabile, aderente all’intellettualismo: alla base di quella sorta di ipnosi per le avanguardie russe e sovietiche, vi era
“l’illusione che nel Paese del socialismo vi fosse il clima più adatto all'espansione di tutto l’anarchismo, l’esasperato individualismo, l’avanguardismo in senso deteriore, che caratterizzano l’intellettuale medio nella società capitalistico – borghese; c’era inoltre la sensazione che la Rivoluzione d’Ottobre fosse un’avventura spietata, un disperato romanticismo (C’era in sostanza una interpretazione ‘esistenzialista’ ante-litteram, della Rivoluzione d’Ottobre). Sulla durata di questa avventura i più saggi tra i ‘simpatizzanti’ non si facevano illusioni e ne prevedevano una rapida liquidazione”.
Ecco, dunque, che la Rivoluzione, secondo la perspicace riflessione di Guttuso, era vista da una parte consistente delle avanguardie occidentali non nel suo portato di rivolgimento radicale, di affrancamento di milioni di uomini e donne dalla schiavitù capitalistico- borghese e feudale, laddove ambo le forme convivevano nel vecchio edificio zarista, bensì come un “soprammobile”, un oggetto d’arredo, un vezzo, un ammennicolo da esposizione buono solo per soddisfare l’infinito narcisismo di individui distaccati dal corpo sociale, quando non logorati dal vizio, o a suggerire sogni esotici, onirici voli di evasione dalle catene di un’interiorità malata e solipsistica. Di certo, quasi nessuno dei fieri paladini delle avanguardie occidentali avrebbe sottoscritto l’appello – esortazione di Majakovskij
“le strade siano i nostri pennelli, le piazze le nostre tele”;
molto meglio i salotti, le conventicole della finta trasgressione, i “bei gesti” anche eroici, anche di rottura con realtà sonnolente e becere, ma alieni da ogni solido fondamento radicato nel sentire delle masse. Se tutto ciò era un dato di fatto, nel senso della direttrice Europa – URSS, allo stesso modo il ragionamento valeva per l’URSS e per settori di quelle correnti che, all'interno di quel Paese, guardavano ai fermenti dell’avanguardia occidentale, con occhi certamente non rivolti ad alcunché di costruttivo:
“Infine c’era il fatto – scrive Guttuso – che nel periodo cosiddetto del comunismo di guerra, accanto ai valori nuovi, come appunto Maiakovski, trovarono posto altri elementi che in realtà erano cascami dell’ ‘avanguardismo’ cosmopolita”.
Dunque, l’artista sottolinea come, accanto al fervore schiettamente innovativo della parte migliore delle avanguardie sovietiche, con le loro audaci creazioni e sperimentazioni, radicate nel vivido retaggio della cultura nazionale russa, vi sia stato, fino al definitivo consolidamento del potere sovietico, un nutrito stuolo di artisti ed intellettuali denigranti quel retaggio e tutti orientati ad idolatrare un occidente decadente ed invadente rispetto alla corretta e giusta valorizzazione della ricchissima, oseremmo dire proteiforme cultura russa, sia nella sua accezione tradizionale, popolare che in quella più “elevata” ed “accademica”. L’umanesimo di Guttuso, unito al carattere non settoriale né tecnico - specialistico della sua riflessione, identifica il momento della cesura con tale decadentismo deteriore, presente ad oriente e ad occidente, e ne coglie esattamente le implicazioni, in Europa ed in URSS: esso si registra
“quando il potere sovietico cominciò a mettere le sue radici in profondità, quando l’influenza ideologica della cultura della borghesia nella sua fase di decadenza cominciò a spegnersi; quando la cultura divenne un’arma, come disse Stalin, per la costruzione del socialismo, quando si operò quella trasformazione della ‘qualità’ in quantità per una nuova ‘qualità’, e la cultura da proprietà e piacere di pochi divenne proprietà di tutti”.
In quel momento,
“cominciò contro la cultura sovietica la grande offensiva. E allora anche parecchi degli ‘amici’ di prima divennero violenti nemici della nuova cultura sovietica e si sentirono depositari dei ‘valori eterni della cultura’, contro una cultura e un’arte create dall'uomo e a servizio dell’uomo”.
Ecco dunque che il consolidamento delle articolazioni dello Stato e del Partito, l’avvio dei Piani quinquennali, la salda guida di Stalin, portano ad una nuova linfa artistica, con la ripulitura di ogni tipo di creazione dai germi dell’individualismo, dell’autocompiacimento borghese, dalla sudditanza nei riguardi dell’occidente. A questo punto, assistiamo al naturale smascherarsi degli intellettualisti europei ed occidentali, i quali passano, nei riguardi del sistema sovietico, da una simpatia poggiante sul malinteso ad un’ostilità fondata, viceversa, sulla più piena consapevolezza della natura del primo Paese con gli operai ed i contadini al potere. Allo stesso modo, in URSS il filisteismo borghese, il cosmopolitismo snazionalizzante, dinanzi a questa nuova temperie, fondata sulla più ampia partecipazione e spinta delle classi popolari, sono costretti a battere in ritirata. Con tale passaggio, con tale cesura, la cultura sovietica viene ad acquistare gambe e braccia sempre più robuste e vede fiorire, in tutta la sua originalità e potenza, il realismo socialista. Nelle arti figurative come nella musica, nella letteratura come nel cinema, esso si afferma come esaltazione di una nuova concezione del mondo, che fa tesoro della parte più positiva dell’eredità della Proletkul’t, della RAPP (Associazione russa degli scrittori proletari) e di altri cenacoli sorti con la sincera intenzione di andare, per dirla coi populisti ottocenteschi, “verso il popolo”, eliminando o contenendo al massimo, però, le incrostazioni anarcoidi, spiritualiste, velleitarie delle origini. Un nuovo filone che è espressione di una visione del mondo non meccanicistica, non positivistica, tanto meno di genuflessione della produzione artistica a diktat e stereotipi, come la critica borghese ha sempre, falsamente, sostenuto. L’opera letteraria, musicale, pittorica, cinematografica, scultorea, non diventano mere “sovrastrutture” meccaniche della base economica strutturale socialista in evoluzione, ma si fanno potenti, lucidi specchi degli sforzi eroici di tutta la società sovietica, con le sue contraddizioni, i suoi sentimenti, i suoi successi, sulla via dell’edificazione del socialismo. Non vi sono trionfalismi retorici ed ampollosi, né vi è decadimento dell’estetica, nei capolavori del realismo socialista, bensì un rinnovato impulso che esalta come mai prima il senso del Bello legandolo al Vero, e, quindi, ricongiungendo finalmente la filosofia ed il pensiero creatore all'eredità del Platonismo, della classicità più autentica e sempre attuale. Nelle opere di prosa e poesia di Majakovskij, Fadeev, Ostrovskij, Fedin, Simonov, Scholokhov, in quelle pittoriche di Brodskij, Nalbandyan, Gerasimov, Favorskij, in quelle scultoree di Vera Mukhina, in quelle musicali di Dunaevskij, qualcuno può seriamente ravvedere solo lo strepito dei martelli pneumatici, il bagliore degli altiforni, la lotta per gli ammassi nei kolkhoz, o uno stile coartato dalla propaganda e dall'oleografia, e non piuttosto un’eleganza e ricchezza di forme ed espressioni, di soggetti e tinte, di panorami e situazioni? Qualcuno può seriamente affermare che l’uomo ritratto in queste creazioni è un robot freddo ed inumano o non piuttosto una persona a tutto tondo che lotta, si interroga, vive, ha passioni, valori ed anche contraddizioni? O forse che per qualcuno la riflessione interiore deve essere solo pessimismo sconfortante, la vita solo salotti e belletti, la fiducia nel domani un atto di fede da coniugare, senza troppe illusioni, all'ottativo? Altro interrogativo: ci troviamo dinanzi ad un filone tutto sovietico e per niente aperto a “contaminazioni” ed apporti stranieri? Nemmeno per sogno: a parte il fatto che basterebbe leggersi Feuchtwanger per rendersi conto di quanto il popolo sovietico, nei “terribili” (per la propaganda borghese falsa e bugiarda) anni ’30 conoscesse a fondo gli scrittori occidentali, il realismo socialista vede vibrare nelle sue corde (e vale anche il viceversa, beninteso!) Faulkner ed Hemingway, Dos Passos e Steinbeck, Verga e Capuana, persino (orrore, per i dogmatici!) il Pirandello delle maschere, laddove queste vengono evidenziate nel filisteismo, nell'ipocrisia dei burocrati e dei ceti spossessati e tirate giù vigorosamente dalla consapevolezza comunista e proletaria, marxista – leninista, della valenza di critica ed autocritica nei nuovi rapporti umani che la società socialista reca con sé. Con ciò intendiamo asserire che non vi furono libri, tele, pellicole, rappresentazioni teatrali e composizioni musicali di scarso valore, mediocri? Certo che ve ne furono, ed un popolo come quello sovietico, che leggeva, frequentava teatri, si recava al cinema più di qualsiasi altro popolo al mondo (basta dare un’occhiata ai dati statistici in merito, per appurare come stessero le cose) ne discuteva in circoli aperti, nei tanti incontri con gli autori, nella miriade di iniziative disseminate ovunque nello sconfinato suo Paese, con franchezza e spirito costruttivo, offrendo suggerimenti e spunti: un panorama che, nei sistemi capitalistici, era ristretto a pochi, elitari circoli.
“Una scienza a servizio dell’uomo, una letteratura priva di ogni aspetto di lusinga, di corruzione. Una scienza e un’arte dirette a migliorare gli uomini ed aumentare la loro fiducia in sé stessi”.
Questo vede, con sincerità ed obiettività, Guttuso nel suo viaggio in URSS.
Se il realismo socialista costituì, senza dubbio, un modello per tantissimi artisti ed uomini di cultura di tutto il mondo, esso non pretese mai di rappresentare un punto di arrivo da copiare pedissequamente: intanto, non aveva canoni assoluti ed invasivi da proporre o, peggio, imporre, se non il riferimento alla concreta situazione sociale, economica e spirituale dei lavoratori. Come tale, poteva incrociare l’analisi intimistica così come la lotta per la realizzazione dei piani quinquennali, le mobilitazioni per gli scioperi e la presa di coscienza dell’operaio alla catena, la condizione del bracciante agricolo così come quella del piccolo artigiano oppresso da banche e monopoli, la famiglia operaia nel sistema socialista ed in quello borghese-capitalistico. Nessun limite, nessun paletto assoluto e coercitivo, ma infinite possibilità, tante quante ve ne sono nella vita di un uomo e, proprio per questo, nessuna “carta carbone” da raccomandare agli artisti ed intellettuali che all'URSS guardavano. Guttuso pone all'attenzione del lettore anche questo elemento, ed anzi lo rinvigorisce, nella sua riflessione, riallacciandolo alla questione del rapporto con la cultura popolare e tradizionale russa, che è e resta, per il realismo socialista, non un qualcosa da respingere come anacronistico, tramontato, sterile, ma, al contrario, un caposaldo da integrare e valorizzare, recuperare ed anzi inverare nei suoi lati positivi e sempre propulsivi, nel quadro della costruzione della nuova società socialista. Non è, questo, un forte nesso con la riflessione gramsciana sul nazionalpopolare? La cultura sovietica, nel suo essere universale, parla certamente al mondo, ma non soffoca le altre voci, le altre sensibilità, le altre culture, come invece fa il mercato infetto dei cascami d’Oltreatlantico:
“anche nel campo della cultura – scrive Guttuso – il Paese del socialismo è il paese più avanzato al mondo. Cosa significa questo? Significa forse che bisogna imitare Repine invece di Cezanne? O Gorki invece di Proust? O Sciolokov invece di Faulkner? La ‘cultura’ borghese suole muoversi negli ‘ambiti’ del gusto ufficiale, e non esiste tirannia peggiore ed ufficialità peggiore di questi ‘ambienti culturali’ di moda. Abbiamo visto e vediamo tanti uomini annientarsi e distruggersi in questi ambienti, convinti con ciò di avere trovato la propria libertà. Per questi gruppi intellettuali il problema si pone proprio così: o Cezanne o Repine. Ed è, s’intende, un modo servile e imbecille di porre il problema (…) E’ stato Stalin che contro il cosmopolitismo della forma e contro la distruzione dei contenuti ha detto per la prima volta che l’arte deve essere nazionale nella forma e socialista nel contenuto. E il nostro Gramsci ci aveva insegnato il significato delle ‘spinte nazionali’, attraverso le quali si costruisce il socialismo. La cultura sovietica ci insegna appunto che è quando si dimenticano i caratteri nazionali che l’artista esprime un gergo cosmopolita senza radici e senza ragioni”.
E’ da questo complesso di verità e constatazioni che nasce, vive e si alimenta, con Guttuso ed altri, non un “realismo socialista” italiano che sarebbe stato, nel suo sorgere per gemmazione e procedere per grottesche scopiazzature, nient’altro che la riproposizione meccanica di una corrente sovietica, utile a nessuno, men che meno alla cultura sovietica ed alla sua proiezione internazionale, bensì il fiume impetuoso e limpido della pittura neorealista, originale, nazionale e popolare ad un tempo, coi suoi Guttuso ed i suoi Birolli, i suoi Vedova ed i suoi Turcato, coi suoi Sassu e le sue Anna Salvatore. E tutto ciò non per caso né per estemporanea grazia, ma per la natura intrinseca del realismo socialista, per il suo rispetto per ogni positiva, finanche caleidoscopica specificità, a differenza della pseudo-arte usa e getta del capitalismo. Mentre infatti il realismo socialista conduce all'esaltazione dei caratteri nazionali radicati e costruttivi di ogni cultura, l’industria del consumismo culturale occidentale, che astrae dagli intellettuali ed artisti di valore, anzi li combatte e li ostracizza, o ne fa oggetti da business travisando la loro valenza e la loro presa sul reale, massifica, livella verso il basso, impone una koinè svilente e deteriore, un coacervo di riti che, come rulli compressori, spianano ogni specificità…E lo fa coi “Rocky” e coi “Rambo”, diremmo oggi per andare avanti rispetto alla narrazione guttusiana, ma interpretandone in pieno il senso e l’orientamento, non meno che con i “Mac Donald’s” e con la letteratura da supermercato. Con fenomenologie, insomma, straniere ad ogni vera cultura, per riprendere un’espressione efficace del citato manifesto dell’Alleanza per la difesa della cultura del 1948. Contro tale cosmopolitismo deteriore, e pure finto e contraddittorio rispetto alla propria etimologia e semantica (non ha senso definirsi cittadino ed intellettuale del mondo, se il mondo è uno e livellato nell'onnipervasività senza alternative dell’americanismo), l’argomentare di Guttuso è quantomai attuale, dopo ben 70 anni. Anzi, lo è oggi come forse mai lo è stato, oltretutto ribadito e rinnovato da tutta una serie di altre prese di posizione dell’artista (3). Esso ci consegna l’onestà intellettuale e la passione civile e politica di un grande uomo, compagno, artista, originale e fecondo, mai conformista e chiuso dietro pretesche ed ipocrite clausure, ma aperto anche alla mondanità senza mai perdere se stesso. Un personaggio a tutto tondo, che parlò e parla col pennello ma anche, come abbiamo visto, con altri mezzi. Tutti da ascoltare.
NOTE
Assai utili questi testi, sia pure diversissimi tra loro, ma tutti concorrenti nel tracciare un profilo a tutto tondo dell’artista.